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La corsa alle armi nucleari: chi spende di più e chi ci guadagna
Gli ordigni atomici “pronti all’uso” nel 2022 sono saliti a 9.576. E gli Stati “nucleari” hanno speso nello stesso anno per i propri arsenali oltre 78,8 miliardi di euro, pari a quasi 150mila euro al minuto. Gli Usa hanno investito più di tutti gli altri Paesi dotati di armi nucleari messi insieme. I dati del Sipri e della Campagna Ican
Nel corso del 2022 i nove Paesi che possiedono armi nucleari hanno continuato a investire per modernizzare i propri arsenali e a livello globale è cresciuto il numero di testate “operative” e pronte all’uso. Il tutto mentre le relazioni geopolitiche e diplomatiche tra gli Stati hanno continuato e continuano a deteriorarsi, anche a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
A lanciare l’allarme è lo Stockholm international peace research institute (Sipri), il principale osservatorio mondiale sull’industria della difesa che il 12 giugno ha pubblicato il proprio rapporto annuale sullo stato degli armamenti, del disarmo e della sicurezza internazionale.
I nove Stati dotati di armi atomiche sono Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan e Corea del Nord, cui si aggiunge Israele. Questi “hanno continuato a modernizzare i propri arsenali e molti nel 2022 hanno schierato nuovi sistemi d’arma con armamento o capacità nucleare”. Le testate censite da Sipri a gennaio 2023 erano 12.512, di cui 9.576 pronte all’uso (86 in più rispetto all’anno precedente). Tra queste ultime si stima che 3.844 fossero dispiegate con missili e aerei, mentre altre duemila, quasi tutte appartenenti a Russia e Stati Uniti, fossero tenute in stato di massima allerta operativa, ovvero montate su missili o tenute nelle basi aeree che ospitano i bombardieri nucleari.
“Con programmi per miliardi di dollari per modernizzare e, in alcuni casi, espandere i propri arsenali i cinque stati firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina, ndr) sembrano allontanarsi sempre più dagli impegni assunti”, sottolinea Wilfred Wan, direttore del programma Armi di distruzione di massa del Sipri.
Gli arsenali di Russia e Stati Uniti, che insieme possiedono circa il 90% di questi ordigni, sembrano essere rimasti sostanzialmente stabili nel corso del 2022 “sebbene la trasparenza sul tema sia diminuita in entrambi i Paesi sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina. Per quanto riguarda la Cina, il Sipri stima che il numero di testate atomiche custodite negli arsenali di Pechino sia passato dalle 350 del gennaio 2022 alle 410 del gennaio 2023 e il trend potrebbe continuare: entro la fine del decennio il Paese asiatico potrebbe potenzialmente avere almeno lo stesso numero di missili balistici intercontinentali degli Stati Uniti o della Russia. Questa crescita, sottolinea Hans M. Kristensen, associate senior fellow del programma Armi di distruzione di massa del Sipri, “è sempre più difficile da conciliare con l’obiettivo dichiarato da Pechino di avere solo le forze nucleari minime necessarie per garantire la propria sicurezza nazionale”.
Secondo l’istituto di Stoccolma anche gli arsenali del Regno Unito sono destinati a riempirsi ulteriormente a seguito dell’annuncio del governo britannico di voler passare dalle 225 testate attuali a 260. Londra ha inoltre dichiarato che non rivelerà più pubblicamente le quantità di armi nucleari, testate e missili dispiegati. La Francia, invece, nel corso del 2022 ha continuato il proprio programma per lo sviluppo di un sottomarino a propulsione nucleare con missili balistici di terza generazione e di un nuovo missile da crociera a lancio aereo, oltre che per l’aggiornamento dei sistemi esistenti.
Sono proseguiti gli investimenti per espandere gli arsenali nucleari anche in India e Pakistan, Paesi storicamente rivali. Mentre in Corea del Nord, secondo le stime del Sipri, il numero di testate nucleari avrebbe raggiunto le trenta unità e il Paese sarebbe in possesso di sufficiente materiale fissile sufficiente per realizzarne complessivamente tra le 50 e le 70.
A questo preoccupante aumento in termini di investimenti, si aggiunge il fatto che la maggior parte degli Stati dotati di armi nucleari sta accentuando la propria retorica sull’importanza di questi armamenti. “Alcuni stanno addirittura lanciando minacce esplicite o implicite sul loro possibile utilizzo -ricorda il ricercatore del Sipri Matt Korda-. Questo ha aumentato drammaticamente il rischio che le armi nucleari possano essere usate per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale”.
A preoccupare è anche il rallentamento degli sforzi diplomatici in materia di non proliferazione a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina: gli Stati Uniti, infatti, hanno sospeso il dialogo bilaterale con Mosca e nel febbraio 2023 la Russia ha annunciato la sospensione della sua partecipazione al Trattato sulle misure per l’ulteriore riduzione e limitazione delle armi strategiche offensive (New Start) del 2010, l’ultimo trattato di controllo degli armamenti nucleari che limita le forze nucleari strategiche russe e statunitensi. “In questo periodo di alta tensione geopolitica e di sfiducia, con i canali di comunicazione chiusi o a malapena funzionanti, i rischi di errori di calcolo, di incomprensione o di incidenti sono eccessivamente alti -osserva il direttore di Sipri, Dan Smith-. È urgente ripristinare la diplomazia nucleare e rafforzare i controlli internazionali”.
Oltre all’analisi dedicata agli armamenti nucleari l’Annuario del Sipri evidenzia il continuo deterioramento della sicurezza globale nell’ultimo anno: l’impatto della guerra in Ucraina è visibile in quasi tutti gli aspetti delle questioni legate agli armamenti, al disarmo e alla sicurezza internazionale esaminate dall’istituto di ricerca. “Stiamo entrando in uno dei periodi più pericolosi della storia dell’umanità -conclude Smith-. È indispensabile che i governi del mondo trovino il modo di cooperare per calmare le tensioni geopolitiche, rallentare la corsa agli armamenti e affrontare le conseguenze sempre più gravi del degrado ambientale e dell’aumento della fame nel mondo”.
I numeri e i trend relativi agli armamenti nucleari si inseriscono inoltre in un contesto globale di aumento della spesa militare (per l’ottavo anno consecutivo) e che secondo le stime pubblicate dal Sipri nell’Annuario hanno raggiunto la cifra record di 2.240 miliardi di dollari.
L’impatto della guerra in Ucraina si è fatto sentire sia a livello globale sia a livello regionale: la spesa militare dell’Europa infatti è cresciuta del 13%. La maggior parte dei Paesi del continente ha risposto all’invasione russa con aumento degli investimenti nel settore e con la messa a punto di piani per la crescita futura con aumenti che si estendono al 2033. La Germania, ad esempio, ha in programma ulteriori sforzi per destinare il 2% del proprio Pil al comparto bellico. La spesa militare è tornata a crescere anche in Medio Oriente (più 3,2%) dopo quattro anni, trainata dall’Arabia Saudita, e nei Paesi asiatici (più 2,7%) trascinata dagli ingenti investimenti di Cina e India. La sola regione del mondo in cui si registra un calo è l’Africa (meno 5,3%).
Secondo le stime della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (International campaign to abolish nuclear weapons, Ican) nel 2022 i Paesi dotati di armi nucleari hanno speso complessivamente 82,9 miliardi di dollari per i loro arsenali nucleari (più di 157mila dollari al minuto). A guidare la classifica sono gli Stati Uniti, con 43,7 miliardi di dollari, che hanno speso più di tutti gli altri Paesi dotati di ordigni atomici sommati tra loro; seguono la Russia (9,6 miliardi dollari) e la Cina (11,7 miliardi di dollari).
Il report di Ican dedica un’attenzione particolare alle aziende che fabbricano ordigni nucleari (inclusi gli interessi dell’italiana Leonardo): a livello globale i Paesi “atomici” hanno stipulato contratti per un valore di almeno 278,6 miliardi di dollari, in alcuni casi fino al 2040. E solo nel 2022 sono stati assegnati almeno 15,9 miliardi di dollari in nuovi contratti che hanno permesso alle società di guadagnare qualcosa come 29 miliardi di dollari. Risorse che sono state poi in parte investite in attività di lobby nei confronti dei governi: 113 milioni di dollari solo negli Stati Uniti e in Francia.
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