Diritti / Attualità
La Bulgaria spinge per la deportazione del dissidente saudita Abdulrahman al-Khalidi

Le autorità di Sofia vogliono espellere il difensore dei diritti umani inviso al regime di Riyad, nonostante il Tribunale amministrativo della capitale ne abbia ordinato a più riprese l’immediata liberazione da un centro di detenzione per richiedenti asilo. È l’emblema dell’erosione dello Stato di diritto in Europa, come denunciano Migrant Solidarity Bulgaria e il Collettivo rotte balcaniche
Come già avvenuto in prima istanza a metà gennaio, lo scorso 26 marzo il Tribunale amministrativo di Sofia ha ordinato l’immediato rilascio del giornalista e attivista saudita Abdulrahman al-Khalidi dal centro di detenzione per richiedenti asilo di Busmantsi, dove è trattenuto da quasi quattro anni.
Nonostante il pronunciamento della Corte, però, quello stesso giorno due agenti della Direzione migrazione della polizia bulgara hanno comunicato ad al-Khalidi che non sarebbe stato liberato, dato che l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale (Sans) aveva disposto il suo trasferimento alla sezione migrazione della struttura, area in cui vengono trattenuti i cittadini stranieri soggetti a misure di espulsione e deportazione.
“A quel punto ho capito che le autorità, anziché rispettare l’ordine del tribunale, stavano facendo di tutto per trattenermi e preparare la mia deportazione il prima possibile, nonostante il mio procedimento di asilo sia ancora in corso”, ha scritto il giornalista il 31 marzo in un comunicato rilanciato da Migrant Solidarity Bulgaria e dal Collettivo rotte balcaniche.
Abdulrahman al-Khalidi è un difensore dei diritti umani saudita. A partire dal 2010 ha sostenuto la richiesta di riforme democratiche e la transizione da una monarchia assoluta a un sistema costituzionale in Arabia Saudita e si è esposto in prima linea anche per i diritti dei detenuti. A causa delle minacce ricevute per il suo impegno politico, nel 2013 è fuggito dal Paese, ma ha continuato a opporsi al governo dispotico del principe ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud, scrivendo articoli contro il regime e prendendo parte al movimento online Bees army, di cui il giornalista Jamal Khashoggi –brutalmente assassinato nel 2018 all’interno dell’ambasciata saudita a Istanbul– è stato uno dei principali animatori.
Dopo aver vissuto in esilio per quasi un decennio spostandosi tra Egitto, Qatar e Turchia, nell’ottobre del 2021 al-Khalidi ha attraversato a piedi il confine turco-bulgaro. Una volta in Europa ha presentato domanda di protezione internazionale, ma è stato immediatamente incarcerato nel centro di detenzione di Busmantsi, struttura che sorge a pochi chilometri dal centro della capitale. In questi anni la sua detenzione è stata giustificata sulla base dell’articolo 67(3) della Legge sull’asilo e i rifugiati, che consente la detenzione di un richiedente asilo qualora sia considerato una minaccia per la sicurezza nazionale.
Nel maggio 2022, l’Agenzia di Stato per i rifugiati della Bulgaria ha respinto la richiesta di protezione internazionale di al-Khalidi, non rilevando per lui il rischio di persecuzione in Arabia Saudita, dato che “il Paese aveva preso misure per democratizzare la società”. Per due volte l’attivista ha presentato ricorso alla Corte amministrativa suprema della Bulgaria. Il suo procedimento, a oggi, risulta ancora pendente.

“Se la Bulgaria deporterà Abdulrahman al-Khalidi in Arabia Saudita prima dell’esito del suo caso di asilo, violerà il principio di non-refoulement (il diritto al non respingimento) e diventerà complice della repressione saudita”, ha dichiarato a metà marzo Joey Shea, ricercatrice sull’Arabia Saudita per conto della Ong Human rights watch, che ha sottolineato anche come “le autorità bulgare e dell’Unione europea dovrebbero impedire una palese violazione del diritto internazionale e dell’Ue, fermare la deportazione di al-Khalidi e consentire immediatamente il suo reinsediamento in un Paese terzo”.
L’espulsione dell’attivista saudita, inoltre, costituirebbe una violazione dell’articolo 3 della Convenzione internazionale contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, secondo cui nessuno Stato può “espellere, respingere o estradare una persona verso un altro Stato nel quale vi siano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta alla tortura”, e dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce “la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante”.

La vicenda di Abdulrahman al-Khalidi può essere vista come il simbolo della sistematica erosione dello Stato di diritto -in Bulgaria e non solo- che vede nella detenzione amministrativa lo strumento privilegiato dai Paesi dell’Ue per la gestione dei flussi migratori.
A tal proposito l’attivista saudita ha evidenziato come “il disprezzo per la magistratura non rappresenta soltanto un pericolo per la mia vita, ma anche una minaccia alle libertà civili in generale, rafforzando un sistema di impunità in cui misure amministrative coercitive vengono applicate senza alcun bisogno di prove o motivazioni concrete”.
Nella sua nota al-Khalidi ha affermato che i piani per la sua deportazione sono ancora in corso e di essere stato costretto a firmare documenti redatti unicamente in lingua bulgara. “Inoltre -ha denunciato l’attivista- sono stato aggredito fisicamente da funzionari che non avevano alcuna autorità per trattenermi con la forza o sottrarmi il telefono, un bene personale consentito dal regolamento del centro di detenzione”.
Il primo aprile la Ong Migrant Solidarity Bulgaria ha organizzato un presidio all’esterno del centro di detenzione di Busmantsi per richiedere l’immediato rilascio dell’attivista. “In questo momento è fondamentale esercitare ogni tipo di pressione sulle autorità bulgare, affinché il rimpatrio di al-Khalidi venga evitato”, spiega ad Altreconomia Elias Segalini, attivista del Collettivo rotte balcaniche che ha preso parte alla manifestazione.
Considerando il trattamento riservato dalla monarchia saudita agli oppositori politici -e l’omicidio Khashoggi ne è un tragico esempio,- infatti, per Abdulrahman al-Khalidi la deportazione equivarrebbe a una condanna a morte pressoché certa. Per questo, concludendo il suo scritto l’attivista ha esortato “la comunità internazionale, le organizzazioni per i diritti umani e i giornalisti a denunciare questa ingiustizia e a fare pressione sulle autorità bulgare affinché rispettino i loro obblighi legali. La mia vita e la mia libertà dipendono da questo”.
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