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La Banca europea per gli investimenti sotto esame: tra sviluppo mancato e interessi privati

In occasione del primo summit globale delle banche multilaterali di sviluppo, le reti della società civile europea Counter Balance e CEE Bankwatch hanno lanciato a inizio novembre un report sulla Bei. La Banca sosterrebbe “progetti che violano i diritti umani”, senza attenzione per l’ambiente e la salute delle persone

La sede della Banca europea per gli investimenti - © EIB

La Banca europea per gli investimenti può diventare la banca di sviluppo dell’Unione europea? Secondo gli autori sembrerebbero dare una risposta negativa, almeno tenendo in considerazione come la stessa istituzione opera al momento attuale. Approfittando della quattro giorni di “Finance in Common”, il primo summit globale delle banche multilaterali di sviluppo, le reti della società civile europea Counter Balance e CEE Bankwatch hanno lanciato a inizio novembre il loro rapporto sulla Banca europea per gli investimenti (Bei), dal titolo “Can the EIB Become the EU Development Bank?”. Una domanda, ovvero se la stessa Bei possa diventare la banca di sviluppo dell’Unione europea, alla quale gli autori sembrerebbero dare una risposta negativa, almeno tenendo in considerazione come la stessa istituzione opera al momento attuale. In un’epoca di grandi sfide ambientali, economiche e per la salute delle persone, la Bei deve rivedere profondamente il suo modus operandi. Il tutto anche in considerazione della sua importanza e dei fondi a disposizione: nel 2019 ha erogato finanziamenti per 69,6 miliardi di euro, con 7,9 miliardi destinati a progetti fuori dall’Europa.

Le critiche contenute nello studio di Counter Balance e CEE Bankwatch sono articolate e puntuali. La Banca, spiegano le due reti, sostiene progetti che violano i diritti umani a causa della sua incapacità di condurre un’adeguata due diligence al riguardo. Le questioni relative ai diritti umani sono da anni oggetto di scarsa attenzione da parte del Comitato di gestione della Bei. In Kenya un progetto geotermale ha provocato pesanti impatti sulle comunità Masai, mentre in Georgia, solo per fare un altro esempio, fortemente contestato dalle popolazioni locali è il sostegno economico accordato alla mega-diga di Nenskra, nella regione montuosa dello Svaneti.

L’istituzione presta scarsa attenzione all’impatto delle sue operazioni sullo sviluppo, anche perché non dispone di competenze sufficienti o di una presenza sul campo tali da fornire un autentico valore aggiunto al di fuori dell’Europa. Inoltre tende a privilegiare un modello di sviluppo estrattivista, mettendo in secondo piano le infrastrutture che sarebbero in linea con la giustizia sociale e ambientale. Di fatto punta buona parte dei suoi fondi, di natura pubblica, in quanto la Bei in ultima istanza è controllata dai governi europei, su quelle mega-infrastrutture che secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (che comprende le economie più ricche del Pianeta) andrebbero realizzate entro il 2030 e al costo di 70 milioni di miliardi di dollari.

E ancora, proseguendo nel nutrito cahier de doléances delle due reti internazionali, favorisce un modello di finanziamento che fa leva su una base ridotta di fondi pubblici per stimolare gli investimenti privati, sovvenzionando di fatto le grandi imprese e le multinazionali anche riducendo il rischio degli investimenti, e consentendo loro di realizzare profitti nelle regioni più povere del mondo. In America Latina quasi il 40% dei fondi è andato a sole cinque corporation: Sacyr, Telefonica, Acciona, Iberdrola e Santander. Ulteriore nota dolente riguarda la pratica della Bei di prestare tramite “intermediari finanziari” ovvero banche o fondi d’investimento anche tra i più spregiudicati. Operazioni queste caratterizzate dalla mancanza di trasparenza, dall’insufficiente controllo sui fondi e dal rischio di corruzione e frode.

“La Banca europea per gli investimenti continua a non rispettare i requisiti di trasparenza previsti dalla propria politica interna e dalla legislazione dell’Unione”, sottolinea Xavier Sol, direttore di Counter Balance e tra le decina di ricercatori che hanno redatto il rapporto. “La Banca è in forte ritardo rispetto al monitoraggio della conformità dei progetti con gli standard ambientali e sociali, che inoltre non sono del tutto adeguati”, conclude.

“No. Una banca che da decenni promuove la privatizzazione sia in Europa sia nei Paesi più poveri, anche in settori più sensibili come l’istruzione o la sanità, e che sostiene un’agenda estrattivista incentrata sui nuovi mega-corridoi infrastrutturali -ribadisce Elena Gerebizza di Re:Common, tra le organizzazioni parte della rete CounterBalance- non può definirsi una banca di sviluppo”.

Re:Common

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