Finanza / Attualità
Intesa Sanpaolo e Unicredit continuano a sostenere l’industria del carbone
Tra il 2020 e il 2021 i due istituti di credito italiani hanno aumentato la loro esposizione al più inquinante dei combustibili fossili. A livello globale le banche hanno incanalato complessivamente verso questo settore 1.500 miliardi di dollari, che si sommano ai 1.200 miliardi degli investitori istituzionali. È uscita la “Global coal exit list”
Un ridotto numero di istituzioni finanziarie di appena sei Paesi svolge un ruolo enorme nel tenere a galla l’industria del carbone. Una dozzina di banche a livello globale forniscono infatti il 48% dei prestiti alle compagnie impegnate in questo settore. È la denuncia contenuta nella “Global coal exit list” (Gcel) redatta dall’associazione tedesca Urgewald, dalla francese Reclaim finance e dalla giapponese da 350.org insieme ad altre 25 Ong internazionali tra cui ReCommon. Complessivamente, tra gennaio 2019 e novembre 2021 le banche commerciali hanno indirizzato 1.500 miliardi di dollari verso l’industria del carbone: tra queste figurano anche le italiane Intesa Sanpaolo e Unicredit. Alle risorse messe a disposizione dalle banche, si sommano poi quelle degli investitori istituzionali, pari a circa 1.200 miliardi di dollari nello stesso periodo. “È spaventoso vedere che fondi pensione, gestori patrimoniali, fondi comuni e altri investitori istituzionali stanno scommettendo sulle compagnie del carbone nel mezzo di una crisi climatica esistenziale”, commenta Yabb Louvell, analista politico a Reclaim Finance.
Tra il 2020 e il 2021 Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno aumentato il loro sostegno all’industria del carbone, il combustibile fossile più inquinante e per questo massicciamente responsabile della crisi climatica che stiamo attraversando. L’istituto guidato da Carlo Messina ha quadruplicato i suoi finanziamenti tra il 2020 e il 2021, passando da 449 milioni a 2,1 miliardi di euro. Mentre Unicredit cresce da 1,36 a 1,71 miliardi di euro. Stesso trend per gli investimenti: passati da 778 milioni a 1,35 miliardi tra il 2020 e il 2021. “La crescita di Intesa Sanpaolo è stata trainata soprattutto dalla sottoscrizione di bond (sestuplicata tra 2020 e 2021), modalità di finanziamento tra le meno regolate in circolazione, dal momento che le società dell’industria fossile possono impiegare i proventi legati ai bond per scopi generici, il più delle volte il proprio core business”, denuncia ReCommon che evidenzia come tra i beneficiari dei finanziamenti dell’istituto di credito torinese figurino la sudafricana Sasol (con 120 milioni di euro) e, soprattutto, la tedesca RWE con 200 milioni di euro. Anche Unicredit ha intensi rapporti commerciali con queste due società mettendo sul piatto, rispettivamente, 136 e 226 milioni di euro.
“I dati del 2020 delle due principali banche italiane sembravano indicare un trend al ribasso rispetto all’esposizione finanziaria al carbone. Quelli aggiornati sono uno schiaffo a chiunque si stia impegnando per contrastare la crisi climatica -commenta Simone Ogno di ReCommon-. I ridotti prestiti al carbone da parte di Intesa Sanpaolo nel 2020 non erano quindi dettati dall’azione climatica, bensì la fotografia di un comparto fermatosi all’inizio della pandemia. Come fa la prima banca italiana a definirsi ‘leader della sostenibilità’ se nel 2022 stiamo ancora a parlare della sua crescente esposizione al più inquinante dei combustibili fossili e se non ha ancora indicato una data per interrompere il suo supporto all’energia prodotta dal carbone?”.
Per compilare la “Global coal exit list” i ricercatori hanno analizzato 1.032 società del settore carbonifero (impegnate nell’estrazione, nel trasporto e nella compravendita, nella gestione di impianti per la produzione di energia elettrica attraverso la combustione di carbone e delle infrastrutture collegate) e i rispettivi “sostenitori” finanziari: banche, fondi di investimento e asset manager. Tra il 2019 e il 2021 un totale di 376 banche commerciali hanno fornito prestiti all’industria del carbone per 363 miliardi di dollari: “Ma appena 12 istituti di credito pesano per il 48% del totale”, si legge nel report. A guidare la classifica sono tre banche giapponesi (Mizuho financial, Mitshubishi UFJ financial e SMBC Group) seguite dall’inglese Barclays e dalla statunitense Citigroup. Ironicamente, dieci di queste realtà sono membri della “NetZero banking alliance”, una rete nata sotto l’egida delle Nazioni Unite con l’obiettivo di allineare i propri portafogli di prestiti e investimenti verso un orizzonte a zero emissioni nel 2050. Le banche di appena sei Paesi (Giappone, Stati Uniti, Regno Unito, India, Cina e Canada) sono responsabili dell’86% dei finanziamenti all’industria del carbone: “Se continueranno con il business as usual non riusciremo ad abbandonare il carbone in tempo per mantenere l’aumento medio delle temperature globali entro 1,5 gradi centigradi”, afferma Katrin Ganswindt, responsabile delle ricerche finanziarie per Urgewald.
Oltre alle banche, un ruolo fondamentale per garantire alle compagnie fossili di continuare a estrarre carbone è ricoperto dai cosiddetti “investitori istituzionali”: la “Global coal exit list” ne ha individuati più di 4.900 con partecipazioni complessive pari a circa 1.200 miliardi di dollari. Le prime 24 realtà pesano per quasi il 46% del totale e le due principali società sono le statunitensi BlackRock e Vanguard (rispettivamente con 109 e 101 miliardi di dollari).
“Nonostante il ‘diluvio’ di alleanze net zero e le dichiarazioni di ambizione climatica da parte delle istituzioni finanziarie durante la COP26, la stragrande maggioranza degli investitori sta ancora fallendo nel fare l’ovvio: mettere fine al loro sostegno alle compagnie fossili e adottare politiche di uscita dal carbone che siano in linea con l’obiettivo di 1,5 gradi centigradi”, conclude Yann Louvel. Non solo queste istituzioni non sanno riducendo la propria esposizione al carbone, ma in alcuni casi la stanno persino ampliando: società impegnate nella realizzazione di impianti a carbone presenti nel portafoglio di BlackRock stanno progettando di costruirne di nuovi per un totale di 200 GW. Una quantità di energia pari a quella attualmente prodotta da tutti gli impianti a carbone attivi in Russia, Giappone, Indonesia, Polonia e Germania sommati tra loro. “Queste istituzioni finanziarie devono essere messe sotto tiro da tutte le parti: organizzazioni della società civile, regolatori finanziari, clienti e investitori progressisti -conclude Ganswindt-. Se non porremo fine al finanziamento del carbone, sarà la fine per noi”.
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