Ambiente / Reportage
Nella terra delle grandi dighe dell’India, dove avanza il deserto
Viaggio nel distretto del Kutch, in Gujarat, una zona arida e soggetta a cicli siccitosi. L’abbandono dei sistemi tradizionali di raccolta delle acque mette a rischio la sussistenza delle comunità locali, costringendole a migrare
Bhuj è una tranquilla e polverosa cittadina ai margini del deserto, capoluogo del distretto del Kutch in Gujarat, che è stata rasa al suolo da diversi terremoti, di cui l’ultimo nel 2001. La città si sviluppa attorno al lago di Hamirsar, un ampio bacino del quale oggi resta solo un’enorme cavità arida. Nella luce rosa del tramonto il suo fondo spaccato si riempie di ragazzini che giocano a cricket. Il lago era il fulcro attorno al quale ruotava la vita della città e il centro di un antico e complesso sistema di raccolta dell’acqua piovana. Dopo tre anni di siccità, il lago si è seccato, diventando il simbolo della persistente crisi idrica che attanaglia la regione. In un territorio dalla particolare geologia e dal clima arido come quello del Kutch, gli effetti del cambiamento climatico sono quanto mai complessi e, insieme all’intervento (e agli errori) dell’uomo, stanno aggravando le naturali criticità della regione, mettendo a rischio la sussistenza delle comunità locali.
Quest’estate, la violenta ondata di caldo che ha colpito l’India ha contribuito ad aggravare una delle peggiori siccità degli ultimi 30 anni. Lo scorso anno il Gujarat aveva registrato un deficit del 76 per cento sulla media delle precipitazioni stagionali e le piogge in ritardo di quasi un mese, quest’anno, hanno fatto temere un’altra stagione estremamente secca. Quando il monsone è infine arrivato, a fine luglio, gli abitanti erano in festa. Monsone imprevedibile, pioggia irregolare e siccità sono una maledizione per le regioni aride in cui gli agricoltori dipendono dalle precipitazioni per i loro raccolti, eppure in Kutch la mancanza di acqua non è una novità. Qui, un ciclo di tre anni di siccità è considerato “normale” e le comunità tribali hanno sviluppato strategie e metodi tradizionali per sopperire alla mancanza d’acqua: la loro intera cultura ruota attorno alla scarsità. Oggi, però, le politiche incentrate sulle dighe hanno spinto le comunità locali ad abbandonare i sistemi di raccolta tradizionali, rendendole dipendenti dall’acqua fornita dai nuovi canali.
Il lago era il fulcro attorno al quale ruotava la vita della cittadina di Bhuj, nel distretto del Kutch. Un ampio bacino di cui oggi resta un’enorme cavità arida
La storia sembra ripetersi. Duecento anni fa, nel 1819, il Rann del Kutch, la palude di sale ai margini del deserto del Thar, fu colpito da un forte terremoto che deviò il corso del fiume Indo verso ovest: il sisma fece emergere una cresta, chiamata Allah Bund, “diga di Dio”. I violenti cambiamenti tettonici e la costruzione delle dighe, hanno contribuito al prosciugamento di molti fiumi, aggravando la scarsità d’acqua di un territorio semi-desertico dalla geologia complessa. La penisola del Kutch, con i suoi 45mila chilometri quadrati di terra protesa verso l’Oceano Indiano, è geologicamente un’isola. I fossili dimostrano che anticamente si trovava sotto il livello del mare. Durante la stagione delle piogge, la palude del Rann viene lentamente sommersa dall’acqua di mare, gonfiata dal monsone e spinta dal vento. Anche dopo il terremoto del 2001 una porzione di crosta è emersa nella parte orientale del distretto creando una nuova faglia che continua a sovrascorrere. In un ecosistema così delicato e in continua evoluzione, gli effetti del cambiamento climatico sui cicli delle piogge e sulle temperature hanno accelerato la naturale degradazione del suolo.
Il fenomeno è particolarmente evidente nella regione del Banni, terre aride che dopo il monsone lasciano il posto a un verde e ricco pascolo dalla lunga storia di pastorizia migratoria. Oggi, la prateria che forma la cintura esterna del Rann, tra le più grandi d’India, è una vasta distesa di terreno spaccato dall’aridità e ricoperto da una sottile crosta di sale: la crescente salinizzazione e desertificazione del suolo ha spinto molti pastori a migrare verso altri Stati. La distruzione della prateria è stata anche in parte dovuta all’introduzione di un arbusto che ha soppiantato le specie autoctone. “Il Banni è oggi invaso dalla Prosopis juliflora, localmente detta gando baval, piantata nel tentativo di contenere la degradazione del suolo”, spiega Vijay Kumar, direttore del Gujarat institute of desert ecology (gujaratdesertecology.com), nel sole che filtra dalle tende del suo ufficio a Bhuj. “È stata importata dal Perù negli anni Sessanta del Novecento, perché sopravvive in aree aride, ma è considerata tra le 100 specie più invasive al mondo” continua. La pianta è oggi l’unico manto verde rimasto in queste piane altrimenti desertiche.
Guidando verso nord attraverso il Banni, il paesaggio, arido e piatto, è punteggiato da cespugli spinosi che nascondono i villaggi di fango delle comunità tribali locali. Branchi di bufali e mucche avanzano pigramente in una nuvola di polvere. Il silenzio di queste pianure è talvolta rotto dal rumore sferragliante di un camion in corsa sull’unica strada e dai jet che pattugliano il confine con il Pakistan. “C’era molta erba qui per far pascolare i nostri animali”, racconta Hashu, una donna della comunità Rabari con la faccia scolpita da profonde rughe, “ma oggi, senza cibo né acqua, possiamo solo guardare i nostri animali morire”. Mentre racconta prepara il tè nell’accampamento della sua famiglia. Maldhari e Rabari sono tribù di pastori che tradizionalmente si muovevano tra il Gujarat e il Rajasthan con il loro bestiame. Prima della Partizione dell’India Britannica, nel 1947, pascolavano fino al Sindh, in quello che oggi è Pakistan. Alcuni di questi gruppi tribali con gli anni sono diventati semi-stanziali e migrano solo in periodi di grave siccità.
Le politiche incentrate sulle dighe hanno spinto le comunità locali ad abbandonare i sistemi di raccolta tradizionali, rendendole dipendenti dall’acqua fornita dai nuovi canali
In Gujarat ci sono una decina di dighe principali che producono energia e alimentano l’irrigazione e altre più piccole che catturano il deflusso della stagione delle piogge. Dagli anni 60 le dighe costruite sui fiumi gujarati hanno contribuito ad aggravare la crisi idrica del Kutch e la desertificazione del Banni. “Esistevano un centinaio di fiumi e ruscelli nella regione, alcuni dei quali si sono completamente prosciugati -spiega ancora Vijay Kumar-. Il problema è che le piogge sono diventate sempre più imprevedibili e l’aumento della temperatura rende difficile la conservazione dell’acqua piovana a causa dell’evaporazione: l’acqua di superficie in Kutch raggiunge 43° in estate”. Il Kutch è rifornito dall’imponente e (controversa) diga Sardar Sarovar sul fiume Narmada, una delle più grandi al mondo: si diceva che avrebbe rifornito d’acqua, tra gli altri, i villaggi dell’arido Gujarat settentrionale. Le politiche idriche basate sulle dighe e i canali hanno però portato al progressivo abbandono delle tradizionali pratiche di raccolta delle piogge, con il risultato che le comunità locali sono sempre più dipendenti dall’esterno per l’approvvigionamento idrico.
“In Gujarat lo Stato ha ‘costruito’ una percezione dominante dell’acqua: ovvero il progetto della diga sul Narmada come unica soluzione al problema idrico” ha scritto Lyla Metha, sociologa dell’Institute of Development Studies di Londra nello studio “La costruzione sociale della scarsità” (2011), dove ha evidenziato come le cattive pratiche di gestione idrica abbiano aggravato la crisi. Tutti gli agricoltori qui fanno affidamento sul monsone. Quando è scarso, usano l’acqua del sottosuolo per irrigare: 50 anni fa la falda acquifera era più superficiale e ricca ma sprofonda di un metro l’anno. Un agricoltore locale racconta di dover trivellare fino a 150-200 metri per trovare acqua, e più va in profondità, più l’acqua è salata: la chiamano old sea, mare vecchio. “Tra 20 anni la falda sarà asciutta, solo le grandi fattorie collegate a fiumi e dighe potranno sopravvivere”, afferma, mentre tre uomini scaricano un camion pieno di sterco nel suo campo. Quest’anno ha stretto un accordo con dei pastori, che hanno fatto pascolare il bestiame nei suoi campi in cambio di sterco per fertilizzare il terreno. Accordi del genere sono sempre più comuni in Kutch, dove le difficoltà legate alla siccità stanno alimentando nuove strategie e reti di auto-aiuto tra pastori e agricoltori.
La crescente desertificazione sta mettendo a dura prova l’allevamento di bovini e l’agricoltura in Kutch, ma le industrie non sembrano essere toccate dal problema
Entrambi i settori sono oggi alle prese con gli effetti devastanti della siccità ma anche delle inondazioni: l’andamento delle precipitazioni è drammaticamente cambiato negli ultimi 30 anni, sullo sfondo di un territorio peculiare che si è trasformato nel corso dei secoli e continua a cambiare, anche per l’intervento dell’uomo. In quest’ambiente, le comunità locali hanno dimostrato una costante resilienza nell’adattarsi alle sempre mutevoli condizioni. Uno studio del 2012 ha esplorato la percezione rurale dei cambiamenti climatici in Kutch, mostrando che molti (anche persone che non conoscono il concetto di cambiamenti climatici) avevano notato drastici mutamenti nei fenomeni meteorologici. E mentre la crescente desertificazione sta mettendo a dura prova l’allevamento di bovini e l’agricoltura in Kutch, le industrie non sembrano essere toccate dal problema. Il Kutch, regione ricca di minerali, con una grande riserva di lignite, bauxite e gesso, ha subito un rapido sviluppo grazie al programma di riabilitazione sismica del 2001. L’industrializzazione del Kutch era parte del più ampio modello di sviluppo che ha interessato il Gujarat nell’ultimo decennio.
Gli abitanti della regione però iniziano a domandarsi come mai le fabbriche, a differenza dei piccoli agricoltori, ricevano acqua dalla diga. Secondo uno studio di IndiaSpend, una onlus che si occupa di data journalism, le industrie in Kutch e Saurashtra, che si approvvigionano alla diga Sardar Sarovar, consumano più acqua di quanta sia stata loro assegnata. In una zona soggetta a siccità e con un’incipiente desertificazione, l’estrazione dal sottosuolo e il conseguente abbassamento della falda acquifera aggraveranno le condizioni di vita delle comunità locali e quindi la migrazione urbana.
Secondo Lyla Metha, che ha studiato il caso di Kutch e le problematiche globali legate all’acqua, la scarsità idrica non è una condizione naturale, secondo la studiosa, ma “è spesso socialmente mediata e il risultato di processi socio-politici”. Bisognerebbe sfruttare la pioggia attraverso la raccolta dell’acqua e il trattamento del bacino idrografico, sostiene. Come facevano le comunità locali prima che arrivassero le dighe.
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