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Il voto in India e la schiacciante vittoria di Narendra Modi

© Andrea de Franciscis

I risultati delle elezioni restituiscono l’immagine di un Paese che ancora una volta ha deciso di consegnare il proprio futuro nelle mani di un leader percepito come forte e carismatico anche se divisivo. Negli ultimi cinque anni, sotto il governo del Bharatiya Janata Party, episodi di violenza, linciaggi e intimidazioni sono diventati la norma

La conta dei voti nelle elezioni più grandi della storia si sta per concludere mentre scriviamo e, come già nel 2014, i sondaggi non sono stati accurati nel predire la schiacciante vittoria del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito espressione della destra nazionalista hinduista che gli exit poll davano per favorito, ma non in questi numeri. I risultati restituiscono l’immagine di un Paese che ancora una volta ha deciso di consegnare il proprio futuro nelle mani di un leader percepito come forte e carismatico anche se divisivo, in quello che a tutti gli effetti era un referendum sul premier Narendra Modi, sui suoi cinque anni a capo della più grande democrazia al mondo. Un Paese sedotto dal culto della personalità che il leader ha abilmente creato attorno alla sua figura di “umile self-made-man al servizio della nazione”, nonostante le molte falle del suo mandato.

E mentre iniziano a piovere tweet e messaggi di congratulazioni al premier indiano dai leader mondiali, per la National Democratic Alliance (NDA), la coalizione capeggiata dal BJP, si profila una vittoria senza precedenti: è in testa in 348 dei 543 seggi ben oltre i 272 necessari per formare un governo di maggioranza. La United Progressive Alliance (UPA) dell’India National Congress (INC), il partito della dinastia Nehru-Gandhi e principale partito all’opposizione, è in testa in 90 seggi, secondo i numeri diffusi dalla Commissione Elettorale. I partiti minori o regionali, invece, si aggiudicano 104 dei seggi disponibili, incassando così una vittoria parziale. Il BJP da solo ha conquistato quasi 300 seggi mentre Rahul Gandhi, rampollo della dinastia politica dell’INC, ha incassato una pesante sconfitta nel seggio di Amethi, in Uttar Pradesh, storica roccaforte del Congress.

Dopo una campagna estremamente polarizzata e una maratona elettorale di sette tornate spalmate su oltre cinque settimane, i dati su scala nazionale rivelano che l’affluenza alle urne è stata la più alta nella storia indiana: circa il 67 per cento dei 900 milioni di elettori registrati ha votato. E come già nel 2014, l’immagine che emerge è quella di un subcontinente nuovamente travolto da un’ondata color zafferano –il colore del BJP e dell’hinduismo-. I numeri sono così totalizzanti da non lasciare spazio a dubbi: l’India vuole Modi. Solo due leader prima di lui erano stati rieletti per un secondo mandato: Jawaharlal Nehru e Indira Gandhi, entrambi del Congress.

È una vittoria storica per il BJP che si conferma primo partito in India, assicurandosi per la seconda volta una consistente maggioranza alla Lok Sabha, la camera bassa del parlamento indiano: non succedeva dal 1971 che un singolo partito conquistasse la maggioranza per due mandati consecutivi. Una vittoria che mette in ombra quella che nel 2014 lo aveva portato al potere, con una maggioranza di 282 seggi relegando lo storico Partito del Congresso, che ha dominato la politica dell’India repubblicana, a soli 44 seggi. “Insieme cresciamo. Insieme prosperiamo. Insieme costruiremo un’India forte e inclusiva. L’India vince ancora!”, ha twittato il leader nazionalista hindu ieri mattina, mentre era ancora in corso la conta dei voti e nel quartier generale del partito a Delhi già si preparavano i festeggiamenti.

Solo cinque mesi fa, il partito del loto, il fiore simbolo del BJP, sembrava soccombere sotto la pressione delle tre pesanti sconfitte incassate in altrettanti, importanti Stati del Nord dell’India -Rajasthan, Madhya Pradesh e Chhattisgarh– nelle elezioni per le assemblee a livello statale. Sembrava che le critiche al governo sulla “demonetizzazione” delle banconote e la riforma fiscale, le violenze intercomunitarie, la crisi agraria e quella occupazionale giovanile stessero pian piano guadagnando terreno, erodendo il sostegno al BJP. Ma non è stato così. “Sconfiggendo [il voto] anti-incumbency (il voto esercitato per esautorare i politici in carica), Modi ha sfidato i suoi critici cambiando la politica in India”, ha scritto il corrispondente della BBC in India Soutik Biswas: “Molti in India sembrano credere che Modi sia una specie di messia che risolverà tutti i loro problemi”.

I temi della sicurezza e del terrorismo trans-frontaliero hanno dominato la campagna elettorale del BJP in queste elezioni, affiancando lo slogan che nel 2014 gli aveva fatto vincere la fiducia di una nazione assetata di rivincita e stanca degli scandali, della corruzione e del clientelismo del Congresso: la promessa del vikas, lo sviluppo che avrebbe garantito all’India una crescita economica senza precedenti e un posto d’onore al tavolo delle potenze mondiali. Il confronto militare con il Pakistan che è scaturito dal sanguinoso attacco suicida alle forze di sicurezza nel Kashmir indiano lo scorso febbraio -rivendicato da un’organizzazione separatista di stanza in Pakistan– ha portato l’India sull’orlo di una crisi nucleare, ma ha anche fatto da cassa di risonanza alla retorica aggressiva del partito, alimentando un’ondata di nazionalismo in tutto il Paese che ha contribuito a mettere in secondo piano i tanti fallimenti e le promesse mancate del governo.

Analisti politici e detrattori del BJP hanno più volte evidenziato come la retorica del governo a trazione hinduista abbia subito un progressivo spostamento dallo sviluppo e la crescita economica a un discorso nazionalista e identitario sempre più fedele alle radici ultra-hindu del partito, che ha acuito le tensioni sociali e le linee di demarcazione settarie tra le diverse comunità che costituiscono il variegato (e delicatissimo) tessuto sociale indiano. Negli ultimi cinque anni, sotto il governo del BJP, episodi di violenza, linciaggi e intimidazioni sono diventati la norma in un’India sempre più divisa e polarizzata. A farne le spese sono state le molte minoranze del Paese: musulmani (che costituiscono il 14,2 per cento della popolazione, oltre 200 milioni di persone) sikh, dalit (il gradino più basso della gerarchia sociale indiana), cristiani.

E mentre in India l’ashtag #ModiReturns è in testa alle tendenze su Twitter e l’indice della borsa nazionale e il Bombay Stock Exchange hanno guadagnato il 3,7 per cento ciascuno all’annuncio degli exit poll di domenica, molti temono che altri cinque anni di un governo che ha sistematicamente represso e marginalizzato le minoranze, silenziato il dissenso, svenduto le risorse del Paese agli interessi delle multinazionali, soggiogato la conoscenza, la giustizia e la libertà di espressione al potere politico, gettato benzina sul fuoco delle tensioni sociali, possano significare la fine dell’India secolare e democratica che abbiamo conosciuto finora. In un lungo e spietato editoriale sul New York Times, dal titolo “Come Modi ha sedotto l’India con l’invidia e l’odio”, il giornalista e scrittore Pankaj Mishra scrive: “L’incarico affidato a Modi in India è lo stesso di molti demagoghi di estrema destra: solleticare una popolazione spaventata e arrabbiata con il capro espiatorio di minoranze, rifugiati, estremisti, liberali e mentre si accelerano le forme predatorie del capitalismo.”

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