Diritti / Approfondimento
Indagando i danni ambientali di più di un secolo di guerre e conflitti
Dalla Prima guerra mondiale al porto di Bari, dal Vietnam ai Balcani, fino a Gaza e all’Ucraina: le guerre del Novecento e del Duemila hanno comportato gravissime conseguenze ambientali, oltreché la perdita di milioni di vite. “Si tratta di perturbazioni dagli effetti prolungati”, spiega Matteo Guidotti, chimico e primo ricercatore dell’Istituto di scienze e tecnologie chimiche “Giulio Natta” del Cnr
“In guerra avere un sistema d’arma più potente del mio avversario -quale che sia il principio attivo e i costituenti- mi dà un vantaggio tattico tale che non penso a quelli che possono essere i danni ambientali a lungo termine causati dalle sostanze che utilizzo. E questo è un filo rosso, valido cent’anni fa come ora. Qualcuno potrebbe risentirsi perché ci preoccupiamo di un albero che non cresce quando muoiono decine di migliaia di persone, ma le due cose sono connesse: al dramma immediato di un combattimento o di un bombardamento, si aggiunge il fatto che a distanza di molto tempo l’ecosistema sia perturbato, che non si riesca più a coltivare o non si possa più vivere in alcune zone”.
A parlare è Matteo Guidotti, chimico e primo ricercatore dell’Istituto di scienze e tecnologie chimiche “Giulio Natta” del Cnr a Milano, che studia i danni ambientali dei conflitti, come quello che si sta consumando ora a Gaza: già a gennaio uno studio pubblicato su Social science research network metteva in luce come la guerra nella Striscia avesse comportato una quantità di emissioni di gas climalteranti stimata a 281mila tonnellate di CO2, un dato superiore alla quantità della stessa molecola rilasciata nell’atmosfera in un anno da venti Paesi nel mondo. A più di tre mesi di distanza la situazione è solo peggiorata.
Che i conflitti abbiano un impatto devastante sull’ambiente non è una novità, anzi: ancora oggi alcune aree europee vivono le conseguenze degli agenti chimici e delle sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente più di un secolo fa, durante la Grande guerra. “A partire dal primo conflitto mondiale c’è stato uso veramente massiccio di tecnologie che prima non si erano viste o si erano viste in maniera frammentaria -riprende Guidotti-. Dal punto di vista della chimica tossicologica, e quindi dell’impatto bioattivo di alcune molecole, c’è stata un’esplosione a partire da questo periodo”.
In Francia c’è ancora una zona rossa, a Nord di Parigi, al confine con il Belgio; un luogo in cui sono state rilasciate quantità enormi di metalli pesanti -come il piombo delle pallottole, ma anche il mercurio, l’arsenico e altri metalli degli altri ordigni di artiglieria-, che lo rendono tuttora inabitabile, non coltivabile e non pascolabile. “C’è una contaminazione delle falde acquifere che ancora permane e una vegetazione rada e assolutamente abnorme, solo di alcune specie -continua Guidotti-; ci sono zone in cui ancora non cresce l’erba. E questo è relativo solo alle armi convenzionali, senza contare le armi chimiche propriamente dette”. Se i residui di queste ultime nell’atmosfera -quindi i gas e i vapori- non hanno lasciato tracce rilevabili, non si può dire la stessa cosa di quanto si è depositato al suolo, come l’iprite, utilizzata in grandissime quantità nelle parti finali del conflitto.
A differenza della Prima, la Seconda guerra mondiale è stata una guerra di maggiore movimento, quindi i danni ambientali sono stati più diffusi: l’inquinamento c’è stato, ma più diluito e quindi localmente meno intenso. “C’è stato un episodio che ha ancora oggi conseguenze -afferma il chimico-, un bombardamento tedesco al porto di Bari, nel dicembre del 1943. Tra le navi affondate ce n’era anche una che portava armi contenenti iprite. Questo ha causato non solo sversamenti, ma anche fiamme particolari, che hanno lasciato delle ustioni chimiche ai marinai. Ora, nel ventunesimo secolo, capita che alcuni pescherecci raccolgano per sbaglio alcune di queste munizioni parzialmente corrose. Ci sono stati anche danni all’ecosistema marino: l’iprite è mutogena e ha dato problemi di riproduzione a specie animali e vegetali”.
Dopo più di vent’anni, in Vietnam, è stata introdotta l’idea dell’azione bellica nei confronti dei vegetali; è stato ampiamente utilizzato, infatti, un desfoliante, il famoso “agente arancio”, che veniva irrorato sulla giungla tropicale al Centro e al Sud del Paese, al dichiarato scopo di individuare i vietcong che vi si nascondevano. Si tratta di una sostanza che a ridotte quantità non è dannosa per l’uomo. Uno dei maggiori sottoprodotti della sua sintesi, tuttavia, è la diossina, uno dei composti più nocivi sintetizzati in maniera involontaria. “Con le grandissime quantità che venivano utilizzate, anche se la prevalenza della diossina fosse stata uno su mille o uno su 10mila, stiamo parlano di una stima attorno ai 200 chilogrammi di una sostanza altamente tossica, di cui alcuni milligrammi possono essere già dannosi per l’uomo -sottolinea il chimico-. Ancora oggi amplissime zone del Vietnam, ma anche del Laos e della Cambogia, hanno dei suoli con quantitativi di diossina assolutamente superiori ai limiti di accettabilità, aree in cui ci sono risaie e campi coltivati”. È per questo motivo che chi abita questi Paesi e se lo può permettere compra riso straniero. E chi non se lo può permettere rischia di ammalarsi: in alcune zone rurali sono documentati molti casi di problemi endocrini e di sviluppo dei bambini.
Nella guerra del Golfo prima e nei Balcani poi sono state utilizzate invece munizioni all’uranio impoverito, che permettevano di perforare armature e blindature molto pesanti, essendo un metallo denso (circa il 70% in più rispetto al piombo) e piroforico: nel punto di impatto si possono raggiungere temperature di oltre 4mila gradi. In questo modo si generano nano e microparticelle di ossido di uranio, un metallo pesante che, se inalato, passa le barriere degli alveoli polmonari e le membrane intestinali, andando a contaminare l’intero corpo. “È da questo che sono nati i famosi casi della sindrome della guerra del Golfo -commenta Guidotti- una malattia cronica che ha colpito prima di tutto i combattenti”.
Anche i conflitti in corso hanno conseguenze ambientali devastanti. “In Ucraina ormai si parla di ecocidio, di distruzione deliberata e volontaria di un ecosistema -osserva il ricercatore-. Si stima che ci siano stati 56 miliardi di dollari di danni ambientali nei primi due anni; ci sono più di mezzo milione di tonnellate di residui di armamenti abbandonati sul territorio”. Un episodio particolarmente drammatico è legato alla distruzione della diga Nova Kakhovka, che ha reso inutilizzabile circa un milione di ettari agricoli a causa delle acque contaminate da sostanze tossiche provenienti da industrie e reflui urbani e industriali che si sono sversati su un’intera regione. Anche la chiusura del sistema di pompaggio della rete mineraria del Donbass è un problema: le acque di miniera -tra i fluidi inorganici più contaminati- riempiono le gallerie, permeano le falde e rischiano di rendere l’acqua imbevibile per chilometri e per generazioni se non in maniera irreparabile. Per non parlare della presenza di centrali nucleari -l’Ucraina era il secondo Paese al mondo dopo la Francia a riuscire a coprire più di metà del proprio fabbisogno con l’energia prodotta da questi impianti- e di grandi quantità di amianto, abolito nella costruzione degli edifici solo nel 2020. “Mi chiedono perché tanta enfasi sull’Ucraina quando ci son molti conflitti nel mondo -conclude Guidotti-. In guerra, una persona è una persona, ovunque sia, ma dal punto di vista chimico l’Ucraina non vale lo Yemen o il Myanmar o il Mali, non perché sia migliore o peggiore, ma perché è un Paese altamente industrializzato. Se, per sbaglio o in maniera intenzionale, si colpiscono industrie, centrali, depositi e anche edifici, allora si possono fare dei danni enormi”.
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