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Diritti / Inchiesta

Inchiesta sul torturatore uruguaiano fuggito in Brasile per sottrarsi alla giustizia italiana

L'ex colonnello uruguaiano Pedro Antonio Mato Narbondo immortalato sul litorale brasiliano. A suo carico pende un mandato di cattura internazionale

Pedro Antonio Mato Narbondo è stato condannato all’ergastolo in Italia per crimini commessi durante l'”Operazione Condor”, inclusi efferati omicidi di oppositori politici. Considerato latitante anche dall’Uruguay, è ricercato dall’Interpol. Oggi vive a piede libero nel Sud del Brasile, tutelato dal divieto di estradizione

Pedro Antonio Mato Narbondo si è guadagnato il soprannome “El Burro” dai colleghi dell’esercito uruguaiano per il modo brutale in cui conduceva i suoi interrogatori. Colonnello negli anni 70, formatosi alla School of the Americas di Panama –luogo dove i militari latinoamericani imparavano i metodi di tortura-, Narbondo è uno dei 14 militari sudamericani (uruguaiani e cileni) ad essere stato definitivamente condannato dalla Corte di Cassazione di Roma il 9 luglio scorso per crimini commessi nell’ambito dell’“Operazione Condor”, una rete di collaborazione tra le agenzie di intelligence delle dittature sudamericane per lo scambio di informazioni e l’annientamento degli oppositori politici messa in pratica negli anni 70 e 80.

Il processo si è svolto in Italia perché numerose delle vittime dei torturatori avevano la cittadinanza italiana. Degli 11 uruguaiani condannati, solo Narbondo non è in carcere. Come un fantasma, è scapatto in Brasile nel 2013 dopo che un giudice uruguaiano l’ha chiamato a deporre nell’ambito dell’indagine sull’omicidio di un lavoratore arrestato e torturato nel 1972 nella caserma dove prestava servizio. Da allora ha l’Interpol sul collo: contro di lui è stato emesso un mandato d’arresto internazionale.

Nonostante risulti ricercato, vive a piede libero dal 2013 a Santana do Livramento, nel Rio Grande do Sul, regione meridionale del Brasile, che confina con la città uruguaiana di Rivera. La sua fuga è stata preparata minuziosamente anni prima, visto che nel 2003 è diventato cittadino brasiliano (ha ottenuto la cittadinanza della madre, nata a Livramento) e così facendo ora è protetto dall’articolo 5 della Costituzione del Brasile, che garantisce che “nessun brasiliano sarà estradato” per rispondere penalmente in altri Paesi.

La città di Santana do Livramento, nel Sud del Brasile – © Cleber Dioni Tentardini

Narbondo, che è in pensione, a settembre di quest’anno compirà 80 anni. Dal cancello di casa sua localizzata in un quartiere borghese della città, ha parlato in esclusiva al giornale Matinal rompendo un silenzio stampa che pareva eterno.

“Ero un militare, eseguivo gli ordini, era un periodo di guerriglia nei Paesi: i Tupamaros in Uruguay, i VAR Palmares in Brasile, lo stesso in Argentina, Cile. Quindi tutto quello che dirò in mia difesa, da militare, non servirà a niente. È sulla sfera politica che questi problemi devono essere risolti”, sostiene. Di fronte alla domanda diretta se abbia commesso o meno i reati per i quali è stato condannato, ha cambiato argomento: “Era un periodo, e tutto questo è rimasto nel passato”. Non ha voluto essere fotografato.

“In Brasile Narbondo è un cittadino libero e ha diritti e doveri come chiunque altro”, ha spiegato il suo avvocato, Julio Martin Favero, di Rio Grande do Sul, agli autori di questa inchiesta. “Era un militare in un’epoca in cui c’era praticamente una guerra civile in corso. Non erano angeli (i militari), ma non si può credere a tutto ciò che gli è stato attribuito. Mi occupo delle conseguenze (di quegli anni) nel rispetto della legge. E non venite a chiedermi se mi vergogno di difendere un cittadino che chiamano genocida e non so che altro”, ha continuato Favero.

Mato Narbondo è stato condannato in Italia per aver partecipato all’omicidio di quattro cittadini italo-uruguaiani in Argentina nel 1976: Bernardo Arnone, Gerardo Gatti, Juan Pablo Recagno Ibarburu e María Emilia Islas Gatti de Zaffaroni. “Bernardo è uscito di casa alle 7 del mattino e non è più tornato. Adesso, a 45 anni di distanza, posso dire che giustizia è stata fatta”, ci ha raccontato Cristina Mihura, vedova di Arnone, al termine dell’udienza finale del processo che ha condannato gli aguzzini, a Roma, il 9 luglio.

“È una sentenza storica. Abbiamo dato alle vittime memoria e giustizia. È un atto contro la barbarie”, ha aggiunto Pietro Gaeta, procuratore della Corte di Cassazione.

Processo Condor, l’udienza in Corte di Cassazione – © Janaina Cesar

Arnone, Gatti, Ibarburu e Zaffaroni furono arrestati a Buenos Aires e condotti nel temuto centro clandestino di tortura della capitale denominato Automotores Orletti, come rivelano le testimonianze di alcuni sopravvissuti alle torture. Soprannominata dai repressori “El Jardin”, la prigione era la base principale dell'”Operazione Condor” nel Paese. Si stima che vi siano state detenute più di 300 persone.

In questo centro di tortura sono passati anche i fratelli Julien Grisonas. Erano bambini (di uno e quattro anni) quando furono rapiti insieme ai loro genitori in Argentina dai servizi segreti uruguaiani. Questo è stato uno dei casi indagati dalla magistratura uruguaiana in cui il nome di Narbondo appare legato a crimini commessi nell’ambito dell’Operazione Condor, ma è stato assolto per mancanza di prove. I bambini sono stati in diversi centri di tortura clandestini prima di essere abbandonati in Cile, dove una famiglia li ha adottati. Anni dopo, hanno riacquistato la loro identità, ma i loro genitori risultano ancora scomparsi.

Nella sentenza di primo grado in Italia, la giudice Evelina Canale ha ricordato che “l’esistenza del Piano Condor è stata dimostrata da molti documenti declassificati, compresi quelli della CIA (l’agenzia di spionaggio civile del governo federale degli Stati Uniti d’America)“. “L’Operazione Condor costituisce un accordo di collaborazione al fine di realizzare un progetto specifico per eliminare gli oppositori politici”, ha confermato Agatella Giuffrida, giudice di secondo grado.

L’Uruguay sta ora iniziando ad indagare sulla partecipazione del colonnello agli efferati omicidi commessi dalla dittatura uruguaiana, compreso quello dell’allora senatore Zelmar Michelini e dell’ex presidente della Camera dei Deputati Héctor Gutiérrez Ruiz, rapito anche lui nella capitale argentina e portato al centro clandestino Automotores Orletti.

Negli anni 80 ci fu un tentativo di chiarire il caso e un’infermiera che avrebbe curato Narbondo dopo una crisi di depressione rivelò che il colonnello aveva confessato il duplice omicidio (di Michelini e Ruiz), mostrando anche una targa che avrebbe ricevuto dalle forze armate a titolo di omaggio per il lavoro svolto. Nel 2011, l’Uruguay ha condannato l’ex dittatore Juan María Bordaberry e il suo allora cancelliere, Juan Carlos Blanco, a 30 anni di carcere per la loro partecipazione a questo episodio e ad altri nove reati, tra cui sparizioni forzate e omicidio politico.

Vista l’impossibilità di estradizione garantita dalla Costituzione brasiliana, il pubblico ministero dell’Uruguay ha invocato un accordo tra gli Stati del Mercosur (il mercato comune dell’America meridionale, ndr) e ha chiesto al Brasile di rinviare a giudizio il colonnello Narbondo in un tribunale brasiliano. L’articolo 11 stabilisce che “lo Stato Parte che nega l’estradizione [con forza costituzionale] dovrà occuparsi del processo della persona, tenendo informato l’altro Stato Parte dello stato di avanzamento del caso, e deve altresì inviare, dopo la sentenza, una copia di essa”.

“Se l’Italia chiederà l’estradizione di Narbondo, accadrà lo stesso già avvenuto per l’Uruguay: il Brasile sostiene di non poter estradare i propri cittadini. Per questo, nell’estate 2021, l’Uruguay ha chiesto formalmente al sistema giudiziario brasiliano di rispettare l’accordo del Mercosur e di rinviare a giudizio Mato Narbondo per i crimini di cui è responsabile qui”, ha informato una fonte della giustizia uruguaiana che ha preferito non essere identificata. Il Brasile non ha ancora risposto.

Se la richiesta delle autorità uruguaiane avesse la meglio, la fine di Narbondo potrebbe essere simile a quella di Nestor Troccoli, condannato anche lui nel “processo Condor” a Roma. Era fuggito dall’Uruguay nel 2007 e da allora, grazie alla cittadinanza italiana, viveva liberamente a Battipaglia, in provincia di Salerno. Troccoli è stato arrestato la mattina del 10 luglio, all’indomani della sentenza della Cassazione, e condotto nel carcere di Salerno dove sta scontando la pena.

Di Janaina Cesar, da Venezia, Cleber Dioni Tentardini, da Santana do Livramento e Naira Hofmeister, da Porto Alegre.
Questo articolo è stato prodotto da Matinal Jornalismo (Brasil) e pubblicato contemporaneamente da Altreconomia (Italia), La Diaria (Uruguay) e El Diario AR (Argentina).

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