Crisi climatica / Reportage
In Senegal il mare sta cancellando Saint-Louis
L’impatto dei cambiamenti climatici è evidente: ogni anno l’oceano erode cinque metri di costa, 300 famiglie hanno già dovuto lasciare le proprie case. La città è stata inserita nel 2000 tra i Patrimoni dell’umanità dell’Unesco
Già nel 2008 il rapporto “Habitat” delle Nazioni Unite aveva lanciato l’allarme per la città di Saint-Louis in Senegal indicandola come “la città più minacciata dall’innalzamento del livello del mare” di tutta l’Africa a causa degli effetti dei cambiamenti climatici. Un allarme ribadito nel 2013 da uno studio del ministero dell’Ambiente secondo cui l’80% della città sarà “ad alto rischio” inondazioni entro il 2080 e 150mila persone saranno costrette e lasciare le proprie case. Siamo nel Nord del Senegal, a 250 chilometri dalla capitale Dakar.
A Saint-Louis, soprannominata la “Venezia d’Africa”, l’impatto dei cambiamenti climatici ha già provocato migliaia di rifugiati e ogni anno vengono persi circa cinque metri di costa: centimetro dopo centimetro gli abitanti della città hanno visto sparire -inghiottiti dall’oceano Atlantico- diverse abitazioni, una scuola, la moschea e parte del cimitero. Circa 300 famiglie sono state dislocate nei campi provvisori di Khar Yalla e Djougop, rispettivamente a otto e a dieci chilometri nell’entroterra.
Saint-Louis è la più antica città coloniale dell’Africa occidentale: venne fondata dai francesi, che la intitolarono al re Luigi XIV, su un’isola alla foce del fiume Senegal. Grazie a questa posizione strategica divenne presto un importante snodo per il commercio di schiavi e gomma arabica. Tra il 1840 e il 1957 è stata la prima capitale del Paese: il passaggio di consegne con Dakar, avvenuto appena prima dell’indipendenza nel 1960, ha segnato il declino economico dell’antica capitale, che ora basa la sua economia quasi interamente sulla pesca. Dall’isola, dove sorse il primo insediamento coloniale e inserita nel 2000 dall’Unesco tra i Patrimoni dell’umanità, la città si è sviluppata su entrambi i lati oltre il fiume: sulla terraferma a Est e su una lunga e sottile striscia di terra sabbiosa a Ovest che la protegge dalle onde dell’oceano.
Su questa barriera naturale, denominata Langue de Barbarie, vivono oggi circa 80mila persone, per lo più di etnia Lebou. Pescatori da secoli, si tramandano le conoscenze acquisite di generazione in generazione: l’oceano è per loro la principale fonte di sostentamento, ma oggi si trovano ad affrontare condizioni sempre più avverse, al limite della sopravvivenza. L’innalzamento delle temperature delle acque e la pesca intensiva praticata dai pescherecci stranieri stanno riducendo disponibilità di risorse ittiche.
L’avanzata del mare, inoltre, ha costretto molti abitanti della Langue de Barbarie a lasciare la costa per trasferirsi nell’entroterra: ora per raggiungere il mare e andare a pesca devono affrontare viaggi più lunghi e costosi. Non vedendo alternative, ogni anno centinaia di saint-louisiens decidono di rischiare il tutto per tutto. “Barça ou barsakh” (ovvero: “Barcellona o morte”) è il modo con cui i locali si riferiscono al viaggio, spesso fatale, attraverso l’oceano Atlantico per raggiungere le coste delle isole Canarie. “Nessuno in famiglia sapeva della sua decisione”. Mansou Wad, pescatore 22enne, racconta così il giorno in cui suo padre ha deciso di abbandonare moglie e figli per raggiungere la Spagna: “Si è svegliato all’alba come ogni mattina per uscire a pescare, ma quella sera non è rientrato. Una decina di giorni dopo abbiamo ricevuto una sua telefonata dal Centro di identificazione di Las Palmas”. Dal 2014 il padre di Mansou vive a La Coruña, in Spagna.
La comunità di Saint-Louis deve poi fare i conti con eventi climatici estremi sempre più frequenti. Nel 2017 e nel 2018 due forti mareggiate hanno provocato gravi devastazioni e lasciato circa 3.200 persone senza casa. A seguito di una richiesta di assistenza internazionale lanciata dal sindaco della città, il presidente francese Emmanuel Macron si è recato in città nel 2018 e si è impegnato a sostenere economicamente -con 15 milioni di euro- la costruzione di una barriera protettiva lunga 3,5 chilometri per rallentare l’erosione delle coste. Un altro progetto, finanziato nel giugno 2018 dalla Banca Mondiale con 30 milioni di dollari, ha come obiettivo quello di fornire sostegno alle circa 10mila persone che vivono nella tendopoli di Djougop e a quanti vivono nella fascia costiera a 20 metri dal mare considerata “a elevato rischio inondazioni”. Anche per loro è previsto un trasferimento nell’entroterra, in nuovi alloggi in costruzione accanto alla tendopoli.
Bacare Niang, 67 anni, vive con la sua famiglia nel quartiere di Guet Ndar, il più colpito dagli effetti dei cambiamenti climatici in Senegal e che si trova nella zona soggetta a esproprio. Ma non se ne vuole andare: “Terminato il muro protettivo saremo al sicuro. Noi non ce ne andremo, apparteniamo a questo luogo e il mare è la nostra unica fonte di vita”. Molti suoi concittadini guardano al futuro con timore e rabbia. Abou Diallo, 56 anni, è membro del Comitato di quartiere di Guet Ndar: “Subiamo in maniera drammatica le conseguenze di un problema che non abbiamo contribuito a causare. E ora gli stessi Paesi che hanno alimentato l’emergenza climatica decidono come porvi rimedio senza consultare le comunità locali”.
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