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In Italia stenta ancora la ricerca dei tumori occupazionali “perduti”

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A 15 anni dall’adozione del Registro nazionale dei casi di neoplasia di sospetta origine professionale il monitoraggio è carente. L’Inail riconosce molti meno casi di quelli stimati da ricerche e studi. Ma senza diagnosi non può esserci giustizia

Tratto da Altreconomia 258 — Aprile 2023

In Italia il fenomeno dei malati di tumore causato (o concausato) da esposizioni a “noxae patogene” sul luogo di lavoro è ancora fortemente sottostimato. In particolare quello delle persone affette da neoplasie dalla cosiddetta “bassa frazione attribuibile”, cioè quei tumori molto diffusi nella popolazione e che però hanno un’origine occupazionale in una percentuale di casi bassa (tra l’1% e il 20% della casistica): tipo quelli del polmone, della vescica, della stomaco, del fegato, del pancreas o del colon, fino a leucemie e linfomi.

La sottostima si verifica nonostante siano passati esattamente 15 anni dall’istituzione, per legge, del Registro nazionale dei casi di neoplasia di sospetta origine professionale (articolo 244 della legge 81 dell’aprile 2008). Non si tratta di un mero raccoglitore di casi: la ricerca e il monitoraggio dei tumori professionali, come sottolinea anche il Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale presso l’Inail, rappresentano infatti un “obbligo giuridico e sociale” e sono soprattutto uno “strumento indispensabile per la prevenzione” e il “miglioramento della salute dell’intera collettività”. Per il semplice fatto che “molte delle cause dei tumori sono state individuate per prime in campo occupazionale”.

Cercare i tumori sul lavoro dunque fa bene a tutti. Alcuni freddi numeri aiutano ad avere un quadro più chiaro del fenomeno della “sottonotifica” in Italia, o per meglio dire dei tumori professionali “perduti”. Ogni anno nel mondo muoiono di cancro circa 8,2 milioni di persone e sono 14 milioni le nuove diagnosi rilevate. A questi dati dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc), in seno all’Organizzazione mondiale della sanità, si aggiungono due stime fatte nel 2015 dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo): a fronte di 2,8 milioni di decessi ogni anno per patologie correlate al lavoro, sempre su scala mondiale, la quota di decessi per neoplasia di origine professionale sarebbe del 26%, cioè 360mila morti circa per tumore associati all’esposizione di sostanze pericolose. Su cento deceduti per tumore ogni anno nel mondo, quattro sarebbero quindi legati a neoplasie professionali, una quota che lo stesso Piano nazionale della prevenzione 2020-2025 ritiene “cautelativa”. Tradotto? “Su oltre 373mila casi di tumore occorsi nel 2018 in Italia (saliti a 390.700 nel 2022, ndr) -si legge nel Piano messo a punto dal ministero della Salute-, ci attenderemmo quasi 15mila casi di neoplasie professionali all’anno”.

La realtà però è ben diversa: l’archivio Inail dà conto di appena 2.657 tumori professionali denunciati nel 2018, con 1.057 casi riconosciuti, con prevalenza di “tumori maligni dell’apparato respiratorio e degli organi intratoracici di tessuto mesoteliale e dei tessuti molli”. Lo stesso Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’Inail, nel recente “Manuale operativo” del sistema di monitoraggio dei tumori a bassa frazione eziologica, la definisce eufemisticamente una “notevole sottovalutazione del fenomeno”, segnalando inoltre come la “ricerca” di questi tumori presenti evidenti “difficoltà ad avviarsi”.

I tumori professionali denunciati dall’Inail nel 2018 sono stati 2.657, di cui appena 1.057 riconosciuti. Nello stesso anno il ministero della Salute, come riportato nel Piano nazionale della prevenzione 2020-2025, stima invece in quasi 15mila i casi di neoplasie professionali a fronte di 373mila casi totali. La differenza tra i casi “censiti” dall’Inail e le proiezioni del ministero, descritte nello stesso Piano come “cautelative”, sono la cifra dell’assenza di un sistema di monitoraggio e registrazione dei casi adeguato

Eppure la linea tracciata nel 2008 era chiara: per andare alla ricerca dei tumori professionali a bassa frazione attribuibile che, come detto, sono diffusissimi e con un’oggettiva difficoltà a separare la componente occupazionale da altri possibili fattori causali (si pensi al fumo), non si poteva certo riprodurre la stessa modalità utilizzata ad esempio per i mesoteliomi, i tumori naso-sinusali, gli angiosarcomi epatici (nettamente più rari nella popolazione generale e dall’elevata frazione attribuibile, vedasi l’esposizione ad amianto, a polveri di legno, cuoio, composti del nichel, o a cloruro di vinile monomero). Per quelli a “bassa frazione” occorreva dunque impostare un metodo di rilevazione basato su un approccio probabilistico.

Al centro di questo schema epidemiologico di ricerca attiva -pensato dal professor Paolo Crosignani, già primario di epidemiologia ambientale presso l’Istituto dei tumori di Milano- furono perciò previsti i Cor-Tp, acronimo di Centri operativi regionali – Tumori professionali, che ciascuna Regione avrebbe dovuto istituire. Ai Cor-Tp e all’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispesl, poi soppresso e inglobato dall’Inail) spettava e spetta il compito di incrociare le schede di dimissione ospedaliera -Sdo, che in Italia sono informatizzate dal 2000- con le storie lavorative raccolte e informatizzate dall’Inps fin dal 1974 (che però escludono, tra gli altri, i lavoratori del settore pubblico, gli autonomi, gli artigiani, i domestici) ottenendo così dei primi “cluster di casi” di tumori, da valutare e approfondire poi anche mediante interviste e questionari, possibilmente rilevanti e definibili come “professionali”. Questo sistema di monitoraggio, però, “stenta a partire” ancora oggi (le parole sono sempre del Dipartimento dell’Inail), tanto che sono appena nove le Regioni che hanno istituito i Cor-Tp e predisposto piani strategici coerenti anche con il Piano nazionale della prevenzione: Campania, Lazio, Marche, Toscana, Calabria, Lombardia, Abruzzo, Puglia ed Emilia-Romagna.

Il 30 gennaio è stato approvato dalla conferenza Stato-Regioni il Piano oncologico nazionale 2023-2027. Per il ministro della Salute Orazio Schillaci il Piano mira a “ridurre le disuguaglianze nell’accesso agli interventi di prevenzione e cura” secondo un approccio “globale e intersettoriale”. Schillaci ha sottolineato la necessità di adottare stili di vita sani e corretti coinvolgendo anche le scuole, a partire dalle elementari” © governo.it/it/media/

Manca tra le altre anche il Piemonte, Regione che ancora si rifiuta di trasmettere le Sdo all’Inail per supposte ragioni di privacy. Lì però l’Ordine dei medici di Torino ha curato poco tempo fa un interessante dossier dedicato proprio ai tumori occupazionali a bassa frazione attribuibile, inclusi quelli maligni del polmone, “che sono un autentico bubbone”, come dice un medico che per decenni ha svolto l’attività di ispettore del lavoro. L’esercizio dell’Ordine è stato semplice quanto disarmante.

Considerando le stime dell’Associazione italiana registri tumori (Airtum) rispetto al numero di nuovi casi di tumore del polmone in Italia nel 2018, pari a 41.500 sommando uomini (27.900) e donne (13.600), e di decessi, 33.836 (24.305 tra gli uomini, 9.531 tra le donne), l’Ordine dei medici torinese ha quantificato in 3.450 i nuovi casi attesi in Piemonte (2.200 tra gli uomini e 1.250 tra le donne) e in 2.818 i decessi (2.051 uomini e 767 donne). “Per il tumore al polmone le stime degli studi più recenti indicano frazioni attribuibili di circa il 20% negli uomini e 2-2,5% nelle donne”, scrivono i curatori del dossier. Se un quinto dei tumori al polmone negli uomini è legato al lavoro, in Piemonte i casi attesi tra questi dovrebbero essere dunque almeno 440. Peccato che l’Inail -che nel bilancio 2021 ha riportato 40,4 miliardi di euro di avanzo di amministrazione- ne abbia riconosciuti 21, meno del 5%. La mancata diagnosi dei tumori occupazionali significa mancata giustizia.

In Piemonte, nel 2018, i casi attesi di tumore al polmone legati ai luoghi di lavoro dovrebbero essere almeno 440 ma l’Inail ne ha riconosciuti solamente 21: meno del 5%

Come è stato possibile ritrovarsi con livelli così bassi? Il Dipartimento dell’Inail parla di “difficoltà intrinseche del riconoscimento delle cause di tumore”, di “scarsa sensibilità” e “scarse conoscenze degli operatori sanitari non specialisti della tematica dell’eziologia professionale delle neoplasie”, di “sottovalutazione complessiva del ruolo e del peso svolto dai fattori di rischio presenti negli ambienti di lavoro”, di “lungo periodo di latenza che separa l’inizio dell’esposizione ai fattori di rischio e la manifestazione clinica della neoplasia”.

Bastano questi elementi per “giustificare” la distanza tra realtà e risultati del monitoraggio? “No. Non bastano -osserva Paolo Crosignani, cui si deve come detto lo schema epidemiologico riconosciuto dalla legge 15 anni fa-. È impensabile, ad esempio, che un bravo clinico che tratta un tumore alla vescica possa effettuare anche un’accurata anamnesi professionale e riconoscere che questo tumore sia dovuto al lavoro di camionista per esposizione protratta a fumi del diesel, cui ad esempio il lavoratore è sottoposto durante le operazioni di carico e scarico. Anche se gli scarichi diesel sono stati riconosciuti come cancerogeni è necessario sapere dove questi rischi siano ancora presenti. I dati 2001-2008, purtroppo non abbiamo analisi più recenti, indicano in Lombardia un rischio aumentato per la vescica nel settore dei trasporti. Questo risultato, ricavato semplicemente incrociando le schede di dimissione ospedaliera con l’archivio dell’Inps ci indica che è probabilmente necessario implementare azioni di prevenzione in questo settore. Anche se il dato è ottenibile a costo praticamente nullo, mancano però le risorse per verificare le condizioni lavorative dei 255 casi identificati e predisporre misure di prevenzione per questo comparto”.

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