Esteri / Approfondimento
In Iraq piantare un albero diventa un gesto che cura le ferite di guerra
Il progetto Green Mosul vuole ridare slancio alla città che fino al 2017 è stata capitale del sedicente Stato islamico, partendo dall’attenzione nei confronti dell’ambiente. La collaborazione tra cittadini e autorità è un segno di speranza
Piantare alberi per superare la guerra ma anche per ridare slancio a una provincia la cui fertilità ha da sempre permesso a intere civiltà di fiorire. È con questo spirito che si è conclusa nel maggio 2022 la prima fase di Green Mosul, un progetto attraverso il quale nell’ultimo anno sono stati piantati oltre 17mila alberi nella seconda città più grande dell’Iraq, capitale dello Stato Islamico fino al 2017. Un risultato che ha superato le aspettative -l’obiettivo iniziale era di cinquemila piante- grazie al coinvolgimento di cittadini, autorità e società civile. “Era da tanto che non si registrava una simile collaborazione a Mosul. Considerando la storia degli ultimi 30 anni, si è rivisto un sentimento di appartenenza alla città che per troppo tempo è mancato”, commenta Omar Mohammed, fondatore di Mosul Eye, capofila del progetto, che conosce molto bene la storia della città.
Mettendo a rischio la propria vita, dal 2014 Omar ha documentato in forma anonima la vita di ogni giorno, le operazioni di propaganda e le atrocità commesse durante l’occupazione dello Stato Islamico. Tutto questo attraverso un blog, Mosul Eye, che è stato a tutti gli effetti l’unica fonte di informazione indipendente a cui il mondo esterno potesse accedere. Omar ha rivelato la sua identità solo nel dicembre 2017, quando era al sicuro in Europa, e da allora il suo impegno è proseguito con la trasformazione di Mosul Eye in un’associazione che mira a ricostruire il tessuto sociale e culturale della città. In aggiunta ad altre iniziative quali il sostegno alle biblioteche, al patrimonio architettonico della città vecchia e il recupero della storia della comunità ebraica attraverso testimonianze orali, con il progetto Green Mosul l’obiettivo era provare a “includere” tutti i livelli della società con semplici azioni.
“Due anni fa da un lato osservavamo che tutti i progetti post-Daesh (acronimo arabo per Stato islamico, ndr) avevano un focus sulla ricostruzione fisica. Dall’altro, pensavamo che occorresse agire contro una crisi climatica che nel Paese è realtà ormai da anni, ma di cui il governo e il resto del mondo si accorgono solo ora. Quindi l’idea è nata in parte dal bisogno delle persone di guarire spiritualmente ma anche dalla necessità di salvare il futuro per le prossime generazioni: salvare un albero non ha solo a che fare con l’ambiente, ma con un domani da curare ogni giorno”.
“È stata una bellissima forma di comunicazione. Nessuno si è chiesto di che religione fossero i pini, i cipressi, o gli alberi di arancio e limoni che abbiamo piantato” – Omar
Con il sostegno del ministero degli Affari esteri francese, la cooperazione tecnica di esperti dell’università di Mosul e vivaisti locali che hanno analizzato le caratteristiche del suolo, il progetto è partito ad aprile 2021 con l’intento di coprire le aree pubbliche della città. Ma dato il grande entusiasmo suscitato, il team di Mosul Eye ha deciso di includere i principali siti culturali e religiosi di tutte le comunità (c) dell’intera provincia di Ninive. “Un’iniziativa del genere aveva senso nei luoghi in cui la gente si incontra e a cui tiene di più. Nelle chiese sono stati i preti a mobilitare i propri fedeli per piantare altri alberi rispetto a quelli previsti dal progetto. Anche i direttori delle scuole hanno fatto la stessa cosa così come gli imam nelle moschee e i leader spirituali ezidi nel distretto di Sinjar”.
Oltre alla mobilitazione spontanea all’interno di ciascuna comunità, molto importanti sono state le interazioni tra di esse. Gruppi di volontari ezidi hanno piantato alberi a Mosul su siti musulmani, e lo stesso han fatto dei Maslawis di fede islamica a Sinjar. Evento per niente scontato dato che la memoria dei massacri commessi dallo Stato islamico nei confronti della minoranza ezida è ancora viva. “È stata una bellissima forma di comunicazione. Nessuno si è chiesto di che religione fossero i pini, i cipressi, o le piante di arancio e limoni che abbiamo piantato -prosegue Omar-. Un albero non ha religione: una verità ovvia ma che è stato importante ribadire. In qualche modo, mi piace pensare che gli alberi hanno assorbito lo spirito delle persone che li hanno piantati”.
Oltre ai siti religiosi, il progetto ha previsto di “coprire” anche le località militari, con l’intento di ribaltare alcune dinamiche sociali e far contribuire tutti al futuro della comunità. Il rapporto tra forze di sicurezza e cittadini, infatti, fino a qualche anno fa era regolato dalla paura, con la isbah, la polizia dello Stato islamico, costantemente in azione per controllare che la popolazione rispettasse le nuove leggi, con pene che non di rado prevedevano anche l’esecuzione sul posto. “Vedere invece cittadini e polizia che insieme piantano alberi, ci fa capire che entrambe le parti si sentono sicure di costruire una nuova relazione”.
Infine, Omar evidenzia un altro aspetto di successo del progetto ossia la decisione del governo provinciale di introdurre la cura delle aree verdi nella legge di bilancio, allocando il 5% del budget annuale. “Le autorità vanno coinvolte, anche se il rischio che strumentalizzino queste iniziative per fini politici è alto. Invece se è la comunità a muoversi prima, e poi il governo che continua, ci sono le condizioni per responsabilizzare le autorità così che in seguito rendano conto ai cittadini. Il fine è ricreare fiducia tra persone e istituzioni.”
A riguardo il giovane sottolinea che se simili iniziative si moltiplicassero in altre aree, sarebbe un segnale importante di una società che vuole riattivarsi a partire dal basso, in un contesto generale che continua a presentare enormi criticità. Fino a novembre 2022 per l’Iraq è stato un anno difficilissimo sia dal punto di vista ambientale sia politico. Già ad aprile si sono toccate temperature di 45-50 gradi, le tempeste di sabbia si sono moltiplicate e la siccità diffusa sta prosciugando laghi e fiumi. Tra questi anche il Tigri e l’Eufrate e il già fragile ecosistema delle Paludi mesopotamiche del Sud, ovvero il giardino dell’Eden secondo riferimenti biblici ma della cui lussureggiante vegetazione ben poco rimane. La popolazione è così costretta a emigrare altrove.
Sul fronte politico, invece, dopo le elezioni dell’anno scorso il Parlamento ha raggiunto un accordo per il nuovo governo soltanto il 27 ottobre. Il gabinetto del nuovo premier Mohammed Shia al-Sudani non ha però ottenuto i voti di uno dei partiti che alle elezioni ha ottenuto più seggi, quello del leader sciita Moqtada al-Sadr, che negli ultimi mesi ha inasprito i conflitti esistenti con l’opposto blocco sciita. Sadr ha prima ordinato ai suoi parlamentari di dimettersi, per poi invitare in due occasioni i suoi seguaci a occupare i palazzi istituzionali a Baghdad. Nella seconda, ad agosto, scontri armati tra sadristi, attivisti di altri partiti sciiti antagonisti e forze di sicurezza si sono conclusi con un bilancio di 30 morti e centinaia di feriti, risvegliando timori di una possibile guerra civile.
“Ciò che viviamo in Iraq da anni è deleterio non solo per la società, ma sta distruggendo tutta la biodiversità che il territorio ha sempre offerto -riprende Omar-. Piantando degli alberi a Mosul abbiamo cercato di dimostrare che non servono per forza dei progetti con budget enormi. Quel che conta sono le idee, il coinvolgimento di tutta la popolazione e una presa di coscienza generale sul fatto che povertà, guerre e conflitti, ma anche sviluppo, coesione e libertà sono sempre più connessi alla salute del nostro pianeta”.
Un concetto ribadito nel corso della conferenza internazionale di chiusura del progetto, che ha visto la partecipazione di autorità, Ong, università, attivisti, imprese, in cui si è affrontato anche il tema delle energie rinnovabili, in un Iraq ancora troppo dipendente dal petrolio ma in cui risorse come sole e vento abbondano. Omar è consapevole che ci vorranno ancora tanti anni per una vera svolta nel Paese, che possa ribaltare l’assetto sociopolitico instauratosi a partire dall’invasione dell’Iraq nel 2003 da parte dell’esercito Usa. “Rimaniamo ancora al centro di troppi interessi (Iran, Usa, Turchia, Arabia Saudita), ma al tempo stesso molto dipende da noi cittadini. Le elezioni, per adesso, sono ancora il risultato di un sistema corrotto e imposto dall’alto e dall’esterno, per cui il cambiamento deve passare prima dalla mentalità delle persone, che si rinnova quando si realizzano obiettivi comuni. Anche a partire da un albero piantato insieme”.
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