Altre Economie
Il vino declassato di Gambellara
Stefano Menti produce vini naturali nel vicentino, in uno dei terroir italiani più vocati per il bianco. Ha rinunciato, però, ad ogni denominazione per la sua garganega, e lo rivendica con una dicitura in etichetta: la qualità del vino, e il suo legame con il territorio, non sono rappresentate da una DOC.
L’azienda Giovanni Menti è una realtà enodissidente, da "Guida al vino critico", la guida a cura di Officina Enoica per Altreconomia edizioni. Questo fine settimana ci trovate a Bussoleno, per il critical wine No Tav, a Bologna, per Gusto Nudo, a Milano, per Vignaioli Artigiani Naturali
“Sono passate 13 vendemmie dalla mia prima annata in completa autonomia: prima facevo un altro lavoro, ben retribuito e che mi piaceva; tornai in famiglia per aiutare i miei genitori in un momento difficile e per non vedere sfumare il lavoro di tradizione fatto da 3 generazioni prima di me”. Stefano Menti fa vino a Gambellara, nel vicentino, continuando così la tradizione del padre Giovanni, stesso nome del bisnonno, colui che aveva fondato l’azienda. Il ritorno a Gambellara e al mondo del vino -spiega- lo ha reso consapevole che quello in cui ha avuto la fortuna di nascere “è uno dei terroir di vini bianchi più importanti d’Italia, nonostante la garganega, il nostro vitigno principe, sia spesso vinificato con l’utilizzo di lieviti esogeni e altri ‘coadiuvanti’ enologici, che lo trasformano in un vino banale, piacione, standardizzato, molto simile ai tanti altri vini che vengono prodotti nel mondo con quello stesso lievito o con lieviti simili”.
Stefano ha fatto altre scelte in vigna, e oggi -immerso in un lavoro che lo rende un privilegiato, anche se lavoro 6 o 7 giorni la settimana- le sue fatiche fisiche vengono ampiamente ripagate dalle soddisfazioni. Tanto che, racconta, “lo sforzo maggiore forse lo svolge mia moglie Katerina, che si adegua ai ritmi della stagionalità e delle fiere alle quali sono legato”. Sui vini imbottigliati dall’azienda Giovanni Menti compare una dicitura: “Vino volutamente declassato”. È parte di una battaglia contro la tassazione nelle denominazioni, “che a pagamento certificano che il tuo vino proviene da una determinata zona (sulla carta), che ha un minimo di acidità (non importa se naturale o aggiunta chimicamente), che ha un minimo di alcolicità (non importa se naturale o se ottenuta da concentratori meccanici che fanno evaporare l’acqua vegetale del mosto o peggio ancora con l’aggiunta di mosti concentrati di dubbia provenienza e qualità), senza guardare alla tipicità e alla qualità” racconta Stefano. A proposito della qualità, le denominazioni “impongono” la presenza di un minimo di 50 milligrammi per litro di solforosa un produttore rischia che il suo vino diventi non idoneo perché ossidato (anche se olfattivamente e gustativamente non lo è), e a proposito della tipicità c’è da dire che “quando un vino fermentato con lieviti spontanei viene degustato in batteria fra 50 vini fermentati con lo stesso lievito selezionato, il vino spontaneo diventa ‘non espressivo del territorio’”. Secondo Menti, tuttavia, “sta pian piano crescendo un’altra idea del vino e i degustatori più acculturati si stanno avvicinando al nostro modo di esprimere liberamente il vitigno, assieme a quei degustatori che il mondo del vino lo avevano abbandonato”. È una soddisfazione importante, ad esempio, ricevere la telefonata di una persone che ringrazia, perché -spiega Stefano- “non beveva più vino e ora dopo aver conosciuto i miei vini da un amico, ha iniziato nuovamente a bere perché dopo 2 bicchieri non sta più male come quando prima beveva ‘vino generico’ e soprattutto mi dice: ‘mi sembra di bere una spremuta d’uva’. E in effetti è così: alcuni nostri vini hanno come unico ingrediente l’uva, altri uva e piccole dosi di metabisolfito di potassio”.