Cultura e scienza / Opinioni
Il pensiero radicale di Simone Weil e il bisogno di verità
Per la filosofa del Novecento, cercare il vero è un impegno di attenzione. L’unico per riuscire a capire l’altro e coglierne la bellezza. La rubrica di Tomaso Montanari
Se dovessi dire qual è il filosofo più alto, forse più luminoso del Novecento, direi che quel filosofo è stato una donna, Simone Weil. Una donna che non ha scritto un sistema filosofico e che stenta a essere riconosciuta dai filosofi ufficiali, quelli delle università, quelli professionali, ma che io credo sia stata davvero il vertice del pensiero filosofico del Novecento europeo. Una filosofia antisistematica che aveva al centro un amore profondissimo per la verità, un bisogno radicale, onesto, trasparente di verità. Scrive Simone Weil: “Il bisogno di verità è il più sacro di tutti eppure non se ne parla mai, la lettura fa spavento quando ci si è resi conto della quantità e della enormità di menzogne materiali diffuse senza vergogna anche nei libri degli autori più amati; e così leggiamo come se si bevesse dell’acqua da un pozzo sospetto”. Il bisogno di distinguere il vero dal falso. Mai come oggi, nell’epoca che amiamo chiamare delle fake news, delle false notizie, della propaganda, del marketing, dello storytelling, del cercare di convincere che letteralmente vuol dire legare insieme, attraverso la menzogna, sentiamo l’attualità di questo pensiero così radicale: “Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità”.
Cercare la verità, per Simone Weil, era soprattutto un impegno di attenzione. Questa è forse la parola chiave: l’attenzione, l’attenzione che si fa cura, che si fa ascolto, che si fa compassione nel senso di patire insieme, è una forza che spinge Weil -una donna delicata che aveva fatto ottimi studi di filosofia alla École Normale, alla Scuola Normale di Parigi- a intraprendere esperienze radicali di conoscenza della vita dal di dentro: nel 1934 assume un posto di fresatrice nello stabilimento della Renault ed è solo la prima di molte esperienze da operaia. Non vanno intesi come dei vezzi da radical chic, come qualcuno direbbe oggi: Simone Weil si mette in gioco completamente, lavora sul serio, si ferisce, partecipa in tutto e per tutto al cimento materiale con le cose, vuole capire come si vive da operai, come si lavora. Intende la fabbrica come un luogo di conoscenza di se stessi, ma anche conoscenza del mondo: di conoscenza della società e di conoscenza dell’animo umano. E scriverà che forse nella storia dell’uomo non si è mai vista una figura così dignitosa, così piena di dignità, come quella dell’operaio specializzato. Occhi, i suoi, capaci di vedere in modo poetico ma concretissimo la meraviglia del fare bene, del lavoro ben fatto. In tutta questa retorica della bellezza, troppo spesso associata al lusso e al denaro, ecco una cosa veramente bella: un operaio che conosce e ama il suo lavoro.
È con questo sguardo che Simone Weil si accosta all’arte italiana, senza mai dimenticare che visitando l’Italia sotto il fascismo, siamo nel 1937, la bellezza dell’Italia le appare inscindibile dai moti di conformismo degli italiani fascisti, ma anche dai moti di ribellione di chi non si piega, non si allinea. Racconta di un ragazzo poverissimo conosciuto su un autobus che va da Firenze a Fiesole, che la folgora dicendole: “Sono un miserabile, ma la sera con la mia chitarra suono: e in qualche modo aderisco alla vita”. Commenta Simone Weil: “Come si può non amare un popolo così”?
Bellezza, lavoro, giustizia: quando i nessi fortissimi che uniscono queste tre parole si spezzano nessuna di esse rimane intera. Senza lavoro, senza giustizia, non c’è bellezza.
Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
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