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Il buio dentro l’Alabama: fanatismo e violenza nel Sud degli Stati Uniti

“Alabama Hunt” di Silvia Giagnoni è un romanzo che indaga fanatismo, razzismo e violenza nella società americana attraverso il percorso di radicalizzazione di un giovane estremista. Con una narrazione intensa, l’autrice intreccia storia, religione e tensioni sociali, restituendo un ritratto potente e spietato di una realtà profondamente radicata nella cultura statunitense
Silvia Giagnoni, nata a Prato nel 1977, ha vissuto per quindici anni negli Stati Uniti prima di rientrare in Italia con la sua famiglia. Scrittrice, attivista e docente di Scienze della comunicazione alla John Cabot University, ha pubblicato diversi libri, tra cui “Placebo, 21st Century Boys” (Arcana 2003), “Oltre la siepe. Alla ricerca di Harper Lee” (Edizioni dell’Asino 2013), il romanzo “Fioca” (Iacobelli 2021) e “GKN. Cronistoria personale di un innamoramento collettivo” (Panerose editore 2024). In inglese ha scritto “Fields of Resistance. The Struggle of Florida’s Farmworkers for Justice” (Haymarket Books 2011) e “Here We May Rest. Alabama Immigrants in the Age of HB 56” (NewSouth Press 2017).
Il suo romanzo “Alabama Hunt”, edito da Alter Ego nel 2024, affronta temi complessi come estremismo politico, fanatismo religioso, razzismo e xenofobia, ambientandoli nell’Alabama pre e post 11 settembre 2001. Attraverso una narrazione intensa e stratificata, Giagnoni esplora le radici dell’odio e della violenza nella società americana, intrecciando riferimenti alla grande letteratura e adottando un linguaggio crudo e diretto, capace di restituire la durezza della realtà in cui si muovono i suoi personaggi.
Giagnoni in “Alabama Hunt” un incidente di caccia è l’evento che mette in moto tutta la storia. Che cosa l’ha spinta a sceglierlo come punto di partenza per affrontare temi così forti come il fanatismo e l’estremismo?
SG Una storia che mi aveva raccontato mio marito (che viene da quei luoghi) mi aveva scosso: anni fa un ragazzo che conosceva era rimasto paralizzato dopo un incidente. A caccia insieme al cugino, era caduto dalla postazione sull’albero, proprio come avviene all’inizio del racconto. Mi sono immaginata che cosa succede all’altro, a quello che non si fa male, ma che pure subisce un trauma. Ecco, quello è diventato il mio protagonista, per approfondire la storia che volevo raccontare: “the coming of age” di un terrorista bianco.
L’Alabama ha una storia complessa di razzismo e tensioni sociali. Quanto ha influito questo contesto sulla costruzione della trama e dei personaggi?
SG Questa è una storia americana, per la violenza, per la volontà-ossessione di redimersi attraverso di essa, ma è una storia anche dell’Alabama, profondamente, per il ruolo che in essa hanno la religione e certamente la segregazione culturale che continua ad esserne un tratto distintivo. Separazione per evitare il contatto. Ne parlava in “The Southern Mystique”, lo storico Howard Zinn che, appunto, vedeva proprio nel contatto -di massa, profondo, tra pari- “il detergente universale contro il razzismo”. Infatti, per Zinn, che scriveva ai tempi del movimento dei diritti civili, la cosa più malvagia della segregazione restava proprio “la perpetuazione del mistero della differenza razziale”. Ecco, quel testo che mi ha permesso di capire meglio i rapporti interraziali negli Stati Uniti. È anche uno dei temi centrali del libro che ho scritto su Alabama e immigrazione (“Here we may rest”) in cui ho cercato di spiegare come l’Alabama abbia funzionato come laboratorio per le politiche xenofobe portate avanti dalla nuova destra americana.
Il linguaggio del romanzo è crudo, diretto, senza filtri. Perché questa scelta? Pensa che renda la storia ancora più potente sul piano emotivo?
SG Non credo si scelga uno stile per raccontare una storia, o almeno io non mi metto a tavolino e lo decido. Esistono momenti di costruzione dell’impianto narrativo, ma la storia si racconta in un certo modo “da sé.” Per me linguaggio e storia nascono insieme, sono entrambe parte del processo creativo. Esce fuori una voce per raccontare questa storia e parla così. Nella gestazione del romanzo, mi sono preoccupata che il ritmo fosse troppo lento all’inizio, il racconto non abbastanza coinvolgente, perché era diverso rispetto ad altre cose che avevo scritto, ma a un certo punto mi sono arresa. Questa è una storia che si sviluppa lenta nella prima parte e poi accelera verso l’inevitabile. Mi sembra che abbiamo col tempo creato un mondo strapieno di filtri ed eufemismi e magari c’è ancora un posto per questi, ma certo sempre meno in politica, come ci dimostrano i risultati elettorali recenti. La letteratura poi non è fatta certo per edulcorare.
La religione è un elemento centrale del libro. Come ha lavorato sul ruolo della fede e del fondamentalismo cristiano nella vita dei suoi personaggi?
SG Questa parte è stata semplice perché ho studiato gli Evangelici a lungo per la tesi di dottorato e poi perché in Alabama dio e Gesù sono nei discorsi quotidiani. Ti accompagnano ovunque vai, è una visione del mondo diametralmente opposta a quella cattolica. Per un’agnostica toscana come me vivere dieci anni in un posto così è chiaro abbia creato dei mostri. Con Jeff, però, volevo creare un personaggio che giustifica i propri piani e agisce “in nome della religione” ma di fatto non prega nemmeno. Non riesce a pregare. Il suo fanatismo, insomma, non è una condanna per chi crede: è piuttosto dire che la vera spiritualità, la fede, beh, è proprio un’altra cosa. Jeff diventa quel che diventa a causa degli anni di isolamento e della mancanza di comunicazione autentica con la famiglia, o con qualunque altra persona a lui vicina.
Il libro parla di violenza e della capacità umana di fare del male. C’è un messaggio che spera arrivi ai lettori su questo tema? E pensa che la letteratura possa aiutare a comprendere meglio la complessità della natura umana?
SG Nel finale c’è la mia visione del mondo. Quando ho chiuso il romanzo, restava fiduciosa, ottimista nella bontà della natura umana. Forse era perché avevo un bambino piccolo che ancora allattavo. Perché di fatto c’erano già forti segnali di decadenza. Provare a spiegare o indagare il male resta la sfida di ogni romanziere, lo fu per tutta la vita per Harper Lee. Lei il romanzo in cui cercava di farlo non è mai riuscito a finirlo, niente di quello che scriveva era all’altezza e gli anni sono passati, e forse davvero c’è un limite a ciò che può essere compreso. Penso a Dylann Roof. Chiamata a scrivere della strage alla Mother Emanuel Ame Church di Charleston (strage di cui a giugno ricorrono i dieci anni) la giornalista e vincitrice del Pulitzer Rachel Kaadzi Ghansah scrive “Dylann Roof is hatred” di fronte all’impenetrabile silenzio e alla mancanza assoluta di empatia del terrorista. La letteratura, rispetto al giornalismo, consente di immaginare, di entrare in quelle teste. Chi scrive studia, legge magari trattati di criminologia, o rapporti dell’Fbi, fa interviste, come ho fatto anche io, per scrivere questo libro, ma poi in definitiva si affida alla propria capacità di introspezione e osservazione di comportamenti delle persone che la circondano. Persone spesso “normali”, quelle che “non farebbero mai male a nessuno”. Cerca delle risposte, immagina. A volte riesce a scrivere libri che aiutano a capire e allora il suo lavoro è compiuto.
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