Economia / Opinioni
Il “nuovo” Patto di stabilità europeo impone la vecchia austerità. A chi giova?
La proposta dalla Commissione europea per la revisione del Patto di stabilità condanna i Paesi membri a misure draconiane in tema di riduzione di debito e deficit, e mette a rischio i margini di manovra di molti Stati, tra cui l’Italia. L’ossessione ideologica del “non voler pagare conti altrui” domina, osserva Alessandro Volpi
L’Europa, al di là delle diverse interpretazioni possibili, continua a essere tedesca. La proposta formulata dalla Commissione europea in merito alla revisione del Patto di stabilità offre una chiara espressione di una simile “dipendenza”. Rivediamo gli elementi che possono suffragare questa lettura.
Nonostante i vari distinguo, il Patto continuerà a mantenere come punti di riferimento il rapporto deficit/Pil al 3% e quello debito/Pil al 60%. Si tratta di percentuali del tutto fuori dalla realtà per gran parte dei Paesi europei e dell’intero Pianeta. Nell’Eurozona infatti il rapporto debito/Pil è al 90%, con pochissime eccezioni, tra cui la Germania, dove si ferma al 67%; pensare di riportarlo al di sotto del 60% significa imporre manovre draconiane e, comunque, generare subito una svalutazione dei titoli del debito dei Paesi che hanno debiti più alti, con conseguenze possibili sugli spread e sul costo degli interessi per quegli Stati.
In secondo luogo, i percorsi di rientro “graduale”, da negoziare con i singoli Paesi ricordano molto i Piani di aggiustamento strutturale imposti in passato agli Stati a basso o medio reddito: richiedono infatti riforme imposte dall’Europa sulla base dei principi di una generale e molto ideologica logica dell’efficienza fine a sé stessa e prevedono sacrifici pesanti. Nel caso italiano ridurre dello 0,5% l’anno il rapporto deficit/Pil per portarlo al 3% comporterebbe una spesa annua di 16 miliardi per un rientro quadriennale o di 8,5 per un rientro settennale. Si tratterebbe di due aggravi quasi insostenibili per un Paese che fatica a trovare, ora, senza ricorrere a un debito troppo costoso, anche “solo” una ventina di miliardi per immaginare una legge di Bilancio. Peraltro con queste regole verrebbero subito meno i margini di manovra che hanno consentito di “liberare” i 3,5 miliardi con cui, nel decreto lavoro, il governo intende finanziare il taglio del cuneo fiscale.
C’è poi l’aspetto rappresentato da un nuovo indicatore che verrebbe introdotto dalla proposta di modifica e costituito dalla cosiddetta “spesa netta”; una spesa pubblica diversa dalla spesa primaria, che è quella al netto degli interessi, e che verrebbe individuata nella spesa che non contempla oltre agli interessi le spese per “variabili al di fuori del controllo del governo”. È molto probabile che con tale espressione si intendano le spese per l’adesione alla Nato o per il riarmo “reso necessario” dai conflitti e altre voci che ben poco hanno a che fare con la tenuta sociale del Paese. Certo, la Commissione ha escluso ipotesi di “golden rule”, l’indicazione di particolari spese ritenute essenziali per i singoli Paesi e legate alla loro politica economia, i cui margini sembrano ormai ulteriormente contratti.
Ma la questione più oscura riguarda le motivazioni dello spirito di questa proposta. Perché l’Europa mantiene regole che impongono un’aspra austerità e continua a condannare, in maniera aprioristica, il debito, quando il livello dell’indebitamento pubblico mondiale ha superato il 100% del Pil? Non possono esserci preoccupazioni per la tenuta dell’euro, che è fin troppo forte, tanto da non essere utilizzabile come moneta di riserva per molti Paesi emergenti. Non possono esserci preoccupazioni neppure per il collocamento del debito europeo, che proprio grazie alla forza dell’euro avrebbe a disposizione una forte Banca centrale, decisamente più indipendente dalla Federal Reserve statunitense.
Perché, allora? L’impressione più immediata è riconducibile alla forza “ideologica” dei falchi del Nord, guidati dalla Germania che, purtroppo, in questa fase, sembrano agire per riflesso condizionato e per l’ossessione di non voler pagare conti altrui, dimenticando tuttavia che senza un mercato interno della zona euro in grado di funzionare saranno sempre più dipendenti dai grandi player mondiali, Cina e Stati uniti in primis; una scelta a cui sacrificare l’Europa.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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