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Economia / Opinioni

Il legame tra arretramento del welfare, privatizzazioni e ricorso al casinò della finanza

© Jonathan Greenaway - Unsplash

Il “decretone” sul lavoro che il governo intende varare il primo maggio conferma la ricetta delle destre: fornire bonus mentre si abbatte il carico fiscale. Ma con minori entrate ed erogazioni di sussidi si rende più difficile mantenere in vita la spesa per i servizi essenziali. Che tornano a essere a pagamento. L’analisi di Alessandro Volpi

Se si riduce la spesa pubblica per sanità, istruzione, servizi e pensioni, ormai totalmente affidate al sistema contributivo, i cittadini dovranno, necessariamente, fare ricorso alla sanità e alla previdenza privata. È evidente.

Dovranno, in estrema sintesi, mettere i loro soldi in fondi sanitari e pensionistici a cui affidare il proprio futuro. Con un dato evidente; se le retribuzioni medie sono in Italia pari a 1.600 euro mensili, appare chiaro che non saranno in grado di garantire cure e pensioni decorose. Quindi diventerà necessario che i fondi a cui sono affidati i risparmi degli italiani per curarsi e per integrare la pensione investano in titoli finanziari dotati di rendimenti alti per ovviare alle insufficienti dimensioni di quegli stessi risparmi.

In pratica, i fondi, per consentire cure costose a chi ha poche risorse, dovranno assumere rischi tanto più alti quanto minore è il risparmio impiegato dal singolo cittadino in quei medesimi fondi. È dunque altrettanto probabile che a maggiori rischi corrispondano, spesso, pesanti perdite con la conseguenza che la finanziarizzazione indotta della privatizzazione lasci senza cure i soggetti con i redditi più bassi. Per curarsi si punta sul casinò della finanza e se si perde si rimane senza cura e senza pensione.

Negli Stati Uniti, quasi 30 milioni di cittadini sono privi di cure, molti dei quali perché hanno investito in fondi che hanno sbagliato investimenti. Questo dato si legge ancora meglio utilizzando una prospettiva storica. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta il miglioramento delle condizioni dei lavoratori italiani è stato determinato dall’introduzione di una serie di servizi gratuiti e universali, erogati in base al reddito, dalla sanità, all’istruzione, alle pensioni. In estrema sintesi, il cosiddetto salario reale cresceva non solo per l’incremento delle retribuzioni quanto soprattutto per la prerogativa per i lavoratori di non dover pagare molti dei servizi essenziali.

Ora il governo delle destre sembra deciso a cambiare modello, seguendo peraltro uno schema già avviato: si forniscono bonus, si abbatte il carico fiscale per lasciare più risorse ai cittadini ma, con minori entrate e con erogazioni di sussidi, si rende più difficile mantenere in vita la spesa per i servizi essenziali che tornano ad essere a pagamento. È un cambio di paradigma: lo Stato riduce le imposte a tutti, abbandonando la progressività, distribuisce bonus e assegni ma taglia i servizi e dunque obbliga i beneficiari di tali misure a “comprare” i servizi essenziali sul mercato. Si tratta di un modello che ha, tra i molti, un difetto enorme: i servizi, privatizzati, saranno decisamente migliori per chi paga di più. In pratica la fine dell’uguaglianza sostanziale. Il “decretone” sul lavoro che il governo intende varare, in maniera simbolica, il primo maggio di quest’anno conferma l’impostazione.

È prevista infatti la destinazione di 3,5 miliardi di euro, “liberati” per effetto di un deficit leggermente più basso delle stime, per finanziare un taglio del cuneo fiscale per circa 15 euro in più in busta paga ai lavoratori con retribuzioni fino a 35mila euro con una durata fino a dicembre. Parallelamente è previsto un taglio dei beneficiari e degli importi del reddito di cittadinanza per circa 3,5 miliardi; in pratica una cifra analoga a quella destinata al taglio del cuneo. Il decretone in termini di risorse sposta così ai redditi bassi, a cui indirizza una quindicina di euro, le risorse del reddito di cittadinanza, i cui percettori subiranno invece un taglio, pro capite, decisamente sensibile. Così facendo non si migliorano le condizioni dei lavoratori e si peggiorano quelle delle fasce più fragili. Nel frattempo, lo stesso decretone celebra il primo maggio moltiplicando le forme dei contratti precari e a tempo determinato.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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