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Il lustrascarpe e noi nel recinto dei ricchi – Ae 23
Numero 23, dicembre 2001Il mondo ricco è un turista in gabbia. L'ho capito due mesi fa in un bar di Quito, in Ecuador. Me ne stavo a un tavolino all'aperto, protetto da un bel recinto di ferro verde alto un…
Numero 23, dicembre 2001
Il mondo ricco è un turista in gabbia. L'ho capito due mesi fa in un bar di Quito, in Ecuador. Me ne stavo a un tavolino all'aperto, protetto da un bel recinto di ferro verde alto un metro e da una guardia armata, sulla piazza davanti alla chiesa di San Francisco. Classica meta turistica, affollata di stranieri. E di ladruncoli, venditori abusivi, mendicanti vari. Persone di cui aver paura? Forse solo fastidiose.
Come quel lustrascarpe -avrà avuto 11 anni- che si è avvicinato al recinto: mi ha assicurato di avere un prodotto speciale, perfetto per le mie scarpe da tennis grigie. Era sporco e simpatico. La guardia armata l'ha mandato via.
Ecco, questo mi sembra il Nord: un turista ricco assediato da un mondo di straccioni e disperati da cui bisogna in qualche modo difendersi.
Sono andato in Ecuador per intervistare artigiani e produttori del commercio equo e solidale. Per “controllare” quello che per anni mi hanno raccontato: che i produttori vengono pagati un prezzo superiore a quello di mercato, che è proibito il lavoro minorile, che i progetti vengono prefinanziati, che si rispettano i diritti dei lavoratori.
Tornato a casa, in molti mi hanno detto: “Ti prego, dimmi che il commercio equo funziona davvero”. Perché magari qualche dubbio uno ce l'ha.
E la risposta è sì: il commercio equo e solidale funziona. Non è perfetto, o almeno non ancora: per esempio perché gli anelli più deboli della catena non sempre sono i “produttori”, ma i salariati che lavorano per i produttori. Hanno più diritti che se lavorassero per altri, ma a volte guadagnano ancora troppo poco per una vita dignitosa.
Ma è vero che la merce viene pagata di più, che le organizzazioni di fair trade garantiscono acquisti regolari e prezzi stabili, che i diritti dei lavoratori vengono rispettati. Nelle piantagioni di banane eque, per esempio, sono stati costruiti servizi igienici e comedoras, spazi coperti con tavoli e panche dove i lavoratori possono fermarsi a mangiare. Oppure i produttori di zucchero di cui parliamo in questo numero del giornale: da quando esportano con il commercio equo hanno automatizzato parte della produzione, mentre i loro “colleghi” usano ancora spremitrici azionate da animali.
Il commercio equo è una risposta concreta.
Il problema? Che è una risposta in un oceano e da sola non basta. Come non bastano i progetti delle Ong, gli aiuti finanziari allo sviluppo, le derrate alimentari donate ai Paesi poveri.
Non possiamo andare avanti credendo che il nostro modo di vivere “occidentale” sia normale, perché la nostra ricchezza non è la norma. In Ecuador lo stipendio minimo fissato per legge è di 130 dollari, quello che da noi può costare un paio di scarpe.
Jorge Enrique ha 27 anni e lavora in un piantagione di banane vicino a Machala, nel Sud dell'Ecuador, per 40 dollari a settimana. Ne spende 36 per mangiare, in famiglia sono in sette. Se qualcuno si ammala è costretto a indebitarsi per comprare le medicine. Ed è un uomo fortunato: Angel Enrique, 59 anni e un'altra piantagione, ogni settimana guadagna solo 26 dollari.
Chi lavora nel settore informale (per esempio chi vende frutta e verdura o i giornali per strada, oppure chi fa il muratore senza un regolare contratto) arriva a 80/90 dollari al mese. Senza garanzie.
Il nostro bel mondo deve iniziare a cambiare vita. Tutti noi, uno per uno. Per una questione di giustizia, prima di tutto.
E dobbiamo capire che la nostra minoranza ricca (il famoso 20 per cento di privilegiati che “si pappa” l'80 per cento delle risorse mondiali) in questo gioco non può continuare a stabilire le regole. Perché siamo solo un'eccezione.