Esteri / Intervista
Il grande gioco del Sahel che interessa anche l’Italia
La regione africana ricopre un peso sempre maggiore nello scacchiere politico internazionale. Un libro ricostruisce le dinamiche che si intrecciano sul campo, dalla presenza di nuovi gruppi jihadisti all’avanzare della desertificazione
Per quasi dieci anni Andrea de Georgio, giornalista freelance, ha vissuto tra Mali, Burkina Faso e Senegal. Ha viaggiato in Ciad, Niger e diversi altri Paesi del Sahel. Spesso gli è capitato di imbattersi in qualche spezzone della “Grande muraglia verde”, un mastodontico progetto di riforestazione che ha come obiettivo dare vita a una fascia alberata larga 50 chilometri lungo il confine meridionale del Sahara per fermare l’avanzata del deserto. “La situazione peggiore che ho osservato è vicina al lago Ciad dove una duna si era letteralmente ‘mangiata’ parte dell’area rimboschita. Mi sento di dire che, ad oggi, questo progetto è un grandissimo flop internazionale”.
A novembre, in occasione della Cop26 di Glasgow, in tutti i telegiornali si è tornati a parlare della “Grande muraglia verde”. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha annunciato uno stanziamento da un miliardo di dollari per dare nuova linfa al progetto: “Purtroppo questi nuovi fondi non sono una buona notizia né per le popolazioni locali né per l’umanità. Temo che a festeggiare saranno solo le lobby di una certa ‘economia verde’ e le élite politiche locali corrotte che si arricchiscono anche grazie a progetti come questo”. Nella regione del Sahel le conseguenze dei cambiamenti climatici sono particolarmente drammatiche ed evidenti: il deserto del Sahara ogni anno cancella 15mila chilometri quadrati di terreno fertile. “Ogni 12 mesi nel Sahel nasce una Calabria di sassi e sabbia”, scrive Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, nel saggio “Il grande gioco del Sahel” (Bollati Boringhieri, 2021) scritto a quattro mani con Andrea de Georgio. Un saggio che racconta la storia e la complessità di una regione che da alcuni anni occupa un ruolo sempre più centrale nello scacchiere politico internazionale. E dove si intrecciano dinamiche diverse: dal cambiamento climatico alla violenza dei gruppi jihadisti, dai conflitti tra le popolazioni locali all’impoverimento causato dalla desertificazione. Oltre agli interessi -politici, economici e militari- di diversi Paesi europei e non solo.
Il titolo del vostro libro rimanda al saggio “Il grande gioco” del giornalista e storico inglese Peter Hopkirk che racconta “il gioco di spie” in Afghanistan e in Asia Centrale a fine Ottocento. Da dove nasce questa scelta?
ADG A partire dall’inizio della crisi in Mali nel 2012, molti analisti hanno iniziato a parlare del Paese come di “un nuovo Afghanistan” e del Sahel come possibile nuova regione di instabilità internazionale che alcuni osservatori hanno iniziato a chiamare Sahelistan. Così io e il professor Marco Aime abbiamo deciso di riflettere su questo parallelismo. Come successo in Afghanistan a fine Ottocento, anche nel Sahel c’è una forte concentrazione di interessi geopolitici e strategici diversi che hanno impattato sulla sicurezza e sulla stabilità dei Paesi della regione. Un parallelismo che riecheggia anche in fatti di cronaca molto recenti: le truppe statunitensi hanno lasciato Kabul e la Francia sta per ridurre sostanzialmente la missione militare Barkhane, nata nel 2014 in chiave anti-jihadista che oggi conta 5.100 uomini e otto basi sparse in tutto il Sahel.
Che ruolo sta avendo la presenza di gruppi neo-jihadisti nel Sahel nell’alimentare l’instabilità della regione e quali impatti ha sulla popolazione civile?
ADG Purtroppo, come spesso accade, le popolazioni civili si trovano tra l’incudine e il martello. In questo caso da un lato ci sono le forze governative: gli eserciti di Mali, Burkina Faso, Niger, formati da soldati male equipaggiati e poco pagati, che spesso hanno commesso violenze contro la popolazione civile. In tutta la regione le persone di etnia peul (una popolazione di pastori presente in tutta l’Africa occidentale, accusata di fomentare il movimento jihadista, ndr) o più in generale chi ha una carnagione più chiara viene spesso additato come un jihadista o come simpatizzante dei terroristi. E chi si trova in queste situazioni rischia moltissimo, persino la vita. Dall’altro lato invece ci sono i jihadisti che, pur essendo dei gruppi formati da qualche migliaio di persone sparsi su un territorio molto vasto, controllano le principali attività economiche.
Che caratteristiche ha il neo-jihadismo saheliano?
ADG Il jihadismo saheliano è stato importato nella regione dall’Algeria e dalla Mauritania. Si è sempre presentato come una realtà molto ancorata al territorio, in particolare legandosi alle istanze indipendentiste delle popolazioni nomadi e semi-nomadi del Centro-Nord del Mali. A queste, negli ultimi anni, si sono aggiunte le affiliazioni sia con al-Qaeda sia con il gruppo dello Stato Islamico che -tra l’altro- si combattono tra loro. La situazione per le popolazioni locali è quindi estremamente difficile.
Che ruolo svolgono le Ong internazionali in questo quadro così complesso?
ADG Ci sono diverse realtà presenti nella regione da molti anni e che, nonostante le grandi distanze e le difficoltà logistiche, riuscivano a portare assistenza alle popolazioni locali colpite da carestie e siccità. Ma oggi faticano molto a svolgere il loro lavoro e sono confinate nelle capitali con regole di sicurezza molto stringenti che non permettono al personale -spesso nemmeno a quello locale- di raggiungere i villaggi nelle aree rurali dove vive circa il 60% della popolazione.
Tra il 2017 e il 2020 l’Italia ha aperto ambasciate in Niger, Guinea Conakry, Burkina Faso e Mali. Oltre ad aver dato il via a due missioni di cooperazione militare: “Deserto rosso” in Niger e “Task force Takuba” tra Mali, Niger e Burkina Faso, avviata nel marzo 2021. Da dove nasce questo rinnovato interesse del nostro Paese per il Sahel?
ADG Il cambio di traiettoria dell’Italia si inserisce all’interno di un contesto globale di ridefinizione degli “scacchieri” internazionali: i pesi strategici di Paesi e regioni che fino a pochi anni fa erano considerati periferici e lontani dai nostri interessi oggi invece sono sempre più centrali. Vale per l’Italia ma anche per altri Paesi storicamente poco presenti nel Sahel come l’Inghilterra, la Germania e la Spagna. L’apertura delle ambasciate italiane è solo la punta dell’iceberg. L’Italia ha sempre partecipato alla Minusma (la missione delle Nazioni Unite in Mali, ndr), partecipa ai programmi Eutm dell’Unione europea per l’addestramento dell’esercito maliano e con il lancio della missione Takuba -su richiesta e pressione della Francia- cerca appunto di avere un ruolo maggiore in questa regione. Sia per ribadire la propria alleanza strategica con Parigi, nonostante le divergenze sulla Libia, sia per avere maggior peso negoziale.
Gli interessi italiani sono solo politici e geo-strategici dunque?
ADG No, non solo. Dietro tutto questo ci sono nuovi mercati per le nostre industrie che producono e vendono armi. Più i conflitti si intensificano e maggiori sono le possibilità di vendere “pacchetti” di addestramento per gli eserciti dei Paesi della regione e materiale bellico: questo vale non solo per l’Italia ma anche per altri attori come Russia, Emirati Arabi Uniti o la Turchia, che stanno aumentando la vendita di materiale bellico nella regione. Inoltre è importante ricordare che tutta la fascia settentrionale del Sahel, quella interessata non a caso dal jihadismo, è ricca di giacimenti di petrolio, gas naturale, uranio, bauxite, oro: queste risorse fanno gola alle aziende europee e italiane. C’è un ultimo elemento: la questione migratoria. Dal Vertice de La Valletta del novembre 2015 l’Italia ha iniziato a spingere moltissimo sull’importanza del Sahel, dei Paesi d’origine e di transito dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale.
Ci sono esperienze positive nel tentativo di contrastare la desertificazione?
ADG Gli effetti dei cambiamenti climatici nel Sahel sono particolarmente evidenti. Yacouba Sawadogo è un anziano coltivatore maliano che senza alcuna conoscenza specifica se non la cultura tramandata oralmente nella regione ha recuperato una tecnica tradizionale ormai caduta in disuso: ha dato vita a una vera e propria oasi nel suo villaggio che si trova in un’area interamente circondata da sabbia e sassi. La sua non è solo una piccola esperienza locale: nel 2018 ha ricevuto il “Right Livelihood Award”, noto come il “Premio Nobel alternativo”. Inoltre grazie a Internet si è formata una rete globale fatta di piccoli attori che, come lui, non solo promuovono azioni concrete di cambiamento ma lavorano anche per preservare le conoscenze tradizionali che purtroppo -con la modernità e la globalizzazione- si stavano perdendo.
L’età media nella regione del Sahel, come del resto in quasi tutti i Paesi africani, è molto bassa: il 40% della popolazione ha meno di 15 anni. Mentre gli over 60 sono appena il 5%. Che ruolo può giocare questa generazione?
ADG Il cambiamento in atto in questi Paesi scorre ancora e viene veicolato soprattutto dall’arte contemporanea. I protagonisti sono giovani attivisti che cercano di promuovere un cambiamento dal basso e vogliono costruire una reale indipendenza, anche culturale e di pensiero, rispetto al passato coloniale non ancora completamente superato. Sono artisti, musicisti, intellettuali e giornalisti che riscoprono le culture e le forme d’arte del passato che negli ultimi decenni, anche per effetto di una modernizzazione sfrenata, si stavano perdendo. C’è un ritorno alla medicina tradizionale, ad esempio, ma anche a un rapporto diverso con il cibo.
Un noto proverbio africano dice che la morte di un anziano è una biblioteca che brucia: per fortuna, anche se il meccanismo di trasmissione del sapere tra le generazioni si è un po’ inceppato, questa trasmissione di conoscenze continua e porta nuova linfa.
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