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Esteri / Opinioni

Dieci anni in Niger, tra un mare di sabbia e la spietatezza dell’Europa

Nell’aprile del 2011 padre Mauro Armanino è giunto a Niamey, capitale del Paese africano. Il Servizio pastorale per i migranti cui ha dato vita gli ha permesso di incontrare vite “resistenti” in transito e “ferite mai cicatrizzate del nostro tempo violento”. Il suo racconto

Padre Armanino (al centro) presso la sede del Servizio pastorale per i migranti di Niamey nel febbraio 2021. Accanto a lui gli operatori Ghouran e Ines - © Manuela Valsecchi e Duccio Facchini

Sono passati dieci anni dal mio arrivo a Niamey, la capitale del Niger. Dall’aprile del 2011 all’aprile del 2021, con lo stesso sole di allora, fedele a se stesso. Domenica 11 aprile qui si registra una massima di 43 gradi in complicità con la stagione che, in questo mese, raggiunge di solito il picco del calore. Tanto per non perdere usi e costumi ormai consolidati, sono riprese le interruzioni mirate e intempestive nell’erogazione di energia elettrica in città. Una porzione di vita che facilita e invita a un primo sguardo retrospettivo del presente transito in questo spazio chiamato Sahel, nome di probabile origine araba che significa “riva, sponda”. Una riva presume un mare, un fiume, un lago o comunque un corso d’acqua qualunque. C’è un mare, in effetti, che giustifica il nome ma è di sabbia, di pietre e soprattutto di rocce, chiamato Sahara. 

Arrivare da straniero da qualche parte, seppure invitato da qualcuno, significa anzitutto scoprirsi come un richiedente asilo tra gli altri. Volti, paesaggi, testo e contesto cospirano per domandare aiuto e tornare per qualche tempo ciò che si vorrebbe dimenticare sempre, fragili, vulnerabili e mendicanti. Le prime strade e i primi incontri fortuiti coi migranti e rifugiati, entrambi in cerca di parole autentiche. Le storie che alla lunga si mescolano ed eppure ognuna rimane come inchiodata nella memoria, ferite mai cicatrizzate del nostro tempo violento. Diallo torturato alla frontiera con la corrente elettrica, Mamadou che promette di tornare e poi ripartire perché, dice, è meglio essere in prigione in Europa che liberi in Africa. Bertrand che vorrebbe andare in Algeria dopo essere stato spaventato dall’oceano Atlantico della Mauritania.

Janet perde il figlio nel mare dopo averlo ritrovato e poi cercato invano. Antony che passa qualche tempo in prigione e poi si impegna perché altri non seguano il suo esempio. Anni di avventure, ritorni e partenze per un altrove che si immagina ricco di futuro e possibilità. Le politiche dell’Occidente europeo che si sono andate precisando con coerente e cinica spietatezza. Frontiere mobili che scendono dal mare Mediterraneo e solcano l’altro mare, quello di sabbia e di pietre per poi approdare sulla riva del Sahel, luogo tradizionale di transito per gli “esodanti”. Non c’è voluto molto perché venissero definiti prima “avventurieri”, poi “clandestini”, “illegali”, “irregolari” e infine niente meno che “criminali”. Osano sfidare frontiere, documenti, trattati, convenzioni, accordi, contratti, sistemi di controllo e guerre di eliminazione dei poveri. Possono legittimamente essere annoverati tra i pochi “resistenti” nell’attuale sottomissione o schiavitù volontaria. 

Padre Mauro durante la sepoltura di una “piccola bambina migrante”, Aliya. Febbraio 2021

Ci sono poi le chiese bruciate e ferite nel gennaio del 2015. All’epoca c’era “Charlie Hebdo” che, caricaturando il profeta dell’Islam sotto la bandiera del “Siamo tutti Charlie”, ha offerto il pretesto ad alcuni per distruggere quanto costruito con anni di tenace dialogo nel Paese. La ferita non si è mai rimarginata e anzi si è trasformata in aperta persecuzione al momento del rapimento dell’amico Pierluigi Maccalli. Due anni d’attesa nell’incertezza di una possibile e improbabile liberazione in cambio di soldi. Il tutto mentre le comunità cristiane della zona hanno visto gradualmente ridursi gli spazi di libertà e solo con la paziente e antica saggezza contadina sanno far sopravvivere ciò da senso alla loro vita. Hanno financo minato una zona di transito per la gente. Questo è un atto di intimidazione, simbolo della follia violenta di oggi.

Infine c’è soprattutto e dappertutto lei. Presente, insistente, condiscendente, resiliente, nomade, pervasiva, coerente col colore di eterno: la sabbia. Proprio lei che, semplicemente, costituisce e modella tutto ciò che pretende fondarsi senza di lei. La politica, le elezioni presidenziali, la giustizia, la vita sociale, i matrimoni, le relazioni umane e le amicizie, le ideologie, i programmi scolastici, i piani di aggiustamento strutturale, i mezzi di comunicazioni, i partiti, la società civile e le religioni. Solo sabbia che il vento porta dove crede che poi trasforma in polvere per insediarsi dove non è invitata. Inutile combatterla o peggio ancora ignorarla. Con tutto sono passati dieci anni, anch’essi di sabbia. Meglio farsela amica e imparare da lei, umile, silenziosa e sovversiva.

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