Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti / Attualità

Il costo sociale e ambientale dello smaltimento delle navi europee in Bangladesh

© Human Rights Watch

Nascondendosi dietro a società di comodo e prestanome, le compagne di navigazione europee riescono ad aggirare le norme comunitarie e a smaltire le proprie navi sulle spiagge-cantiere del Paese asiatico. Tagliando su sicurezza, tutele e protezione dell’ambiente. La denuncia di Human Rights Watch e Shipbreaking

Mohammed Biplob, operaio in un cantiere navale di Chattogram, in Bangladesh, stava smantellando una nave cargo di 24 anni, la Max, quando è stato gravemente ferito da un’esplosione improvvisa. La famiglia di Biplob è stata costretta a vendere i suoi terreni per sostenere le cure mediche dell’uomo che ora si mantiene gestendo una bancarella.

La storia dell’uomo, il cui nome, come quello di tutte le persone citate, è stato modificato, è raccontata nel report “Trading lives for profit: how the shipping industry circumvents regulations to scrap toxic ships on Bangladesh’s beaches“, pubblicato nel settembre 2023 da Human rights watch (Hrw) e da Shipbreaking platform, rete di Ong che promuove i diritti dei lavoratori e la sostenibilità ambientale nel settore della demolizione navale. Secondo il rapporto, la Max, inizialmente di proprietà del gruppo greco Tide Line, sarebbe arrivata nel Paese tramite un intermediario per aggirare le normative europee che impongono che le navi siano smaltite solo in cantieri considerati sicuri.

Non si tratta di un caso isolato. “Sebbene la maggior parte delle navi sia originariamente di proprietà di compagnie europee, dell’Asia orientale e del Sud-Est asiatico, la destinazione finale dell’80% di tutto il tonnellaggio a fine vita è in una di queste tre spiagge dell’Asia meridionale: Chattogram in Bangladesh, Alang in India e Gadani in Pakistan -riporta Hrw-. Tagliando i costi della sicurezza, della manodopera e delle tutele ambientali, questi cantieri si offrono di acquistare le navi in disuso a un prezzo più che doppio rispetto ai loro concorrenti più vicini in Turchia”. Il Bangladesh, in particolare, è una delle principali destinazioni per le imbarcazioni da smantellare.

Dal 2020 circa 20mila lavoratori -molti dei quali bambini- hanno smontato oltre 520 navi, per un tonnellaggio superiore a quello di qualsiasi altro Paese al mondo. Si tratta di un settore particolarmente redditizio che contribuisce per più di due miliardi di dollari all’economia interna. Inoltre oltre la metà dell’acciaio utilizzato in Bangladesh proviene proprio dai cantieri navali di Chattogram. Al prezzo di gravi danni ambientali e di continue violazioni dei diritti dei lavoratori.

© Human Rights Watch

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), infatti, lo smantellamento delle navi è uno dei mestieri più rischiosi al mondo, una situazione che in Bangladesh è aggravata dal mancato rispetto dei diritti sul lavoro. Che nell’industria della demolizione navale nel Paese è in gran parte informale, non regolamentato e raramente soggetto a ispezioni o controlli. Gli operai sono spesso costretti a lavorare senza mezzi di protezione adeguati o senza che le navi siano ispezionate e svuotate dalle sostanze pericolose. Di conseguenza sono soggetti a gravi incidenti dovute a esplosioni di gas o liquidi infiammabili, cadute da grandi altezze o a causa dell’instabilità della nave. “L’azienda fornisce guanti di livello molto basso. Dovrebbero darci due paia di guanti ogni 15 giorni, ma ne riceviamo solo uno. Anche gli altri dispositivi di sicurezza sono scadenti. Non ci danno mai gli occhiali di protezione, che sono essenziali perché le scintille che si sprigionano dal taglio del ferro sono molto pericolose e ci sono molti casi in cui i lavoratori si feriscono agli occhi”, ha riferito a Hrw Ahmed, un operaio di 26 anni.

Nonostante un alto tasso di infortuni, ai lavoratori è negata non solo un’assistenza sanitaria base ma anche un adeguato soccorso in caso di incedente. La demolizione delle navi avviene direttamente sulla spiaggia, il che rende impossibile ai mezzi di soccorso, come ambulanze o autobotti, di avvicinarsi. In tutti i casi documentati dalle Ong i lavoratori sono stati costretti a trasportare i propri colleghi rimasti feriti a piedi, senza l’ausilio di una barella, fino alla strada più vicina e poi caricare il ferito su una macchina o un risciò per portarlo in ospedale. I feriti non hanno ricevuto un rimborso delle spese mediche o lo hanno ottenuto solo in parte e non sono stati retribuiti durante le assenze per malattia, mentre lo stipendio medio percepito è al di sotto del minimo previsto dalla legge.

Inoltre secondo un’ispezione realizzata nel 2019 da Shipbreaking Platform, il 13% della forza lavoro era costituita da minori, una quota che sale al 20% durante i turni notturni. Molti degli operai intervistati ha raccontato infatti di aver iniziato a lavorare a 13 anni.  

Ad accrescere i rischi dei lavoratori è proprio il modo in cui le navi vengono demolite che prevede di far arenare l’imbarcazione sulla spiaggia sfruttando l’alta marea invece di utilizzare banchine o porti attrezzati. Questa pratica, oltre ad aumentare i rischi delle operazioni, ha anche gravi conseguenze ambientali. Le sostanze chimiche tossiche come petrolio e altri inquinanti vengono scaricate direttamente sulla sabbia e nel mare, mentre gas e particelle pericolose vengono rilasciate in aria. Metalli pesanti e altri inquinanti avvelenano il suolo, l’acqua e campi vicini e hanno un impatto permanente sulla biodiversità marina e sugli habitat costieri. Secondo l’Istituto marino dell’Università di Chittagong, l’industria della rottamazione navale del Bangladesh avrebbe cancellato 21 specie di pesci e crostacei e messo in pericolo altre 11. Oltre a danneggiare le comunità di pescatori che vivono sulla costa.

“L’acqua del mare è inquinata dalle navi ed è velenosa, quindi i pescatori non trovano pesce”, ha spiegato Masum, 44 anni, che ha iniziato a vendere pesce dopo essersi ferito nei cantieri di demolizione delle navi. Lo stesso Paese non dispone di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti tossici. “La legge sul riciclo delle navi del Bangladesh, approvata nel febbraio 2018, dichiarava che entro il febbraio 2021 il governo avrebbe creato un impianto di trattamento, stoccaggio e smaltimento dei rifiuti tossici provenienti da questo settore -si legge nel report-. Tuttavia, a oltre due anni dalla scadenza, questo non è stato fatto e i rifiuti tossici continuano a essere scaricati direttamente sulla spiaggia, mettendo a rischio la vita e i mezzi di sostentamento delle comunità circostanti e aggravando il degrado ambientale”.

Questa industria, secondo Hrw, è alimentata dalle aziende europee che approfittano dei bassi costi dei cantieri del Bangladesh e utilizzano compagnie di bandiera e prestanome per aggirare le normative comunitarie, le quali prevedono che le imbarcazioni europee possano essere smaltite solo in porti approvati e considerati a norma. Se nel 2022 oltre il 30% delle navi al mondo era di proprietà di un’azienda europea, meno del 5% lo era al momento della demolizione. Secondo Hrw questi cambiamenti di proprietà sono dovuti a una precisa strategia delle imprese. Secondo Il Regolamento dell’Unione europea sulle spedizioni di rifiuti via nave, che comprende le stesse imbarcazioni, questi non posso essere inviati in Paese esterni all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Ma questa regola non si applica a navi che sono state nel frattempo cedute ad aziende extraeuropee.

“Le decisioni di rottamare queste navi in condizioni che non sarebbero consentite nell’Ue vengono prese negli uffici di Amburgo, Atene, Anversa, Copenaghen e altri centri di smistamento europeo -ha denunciato Ingvild Jenssen, fondatore e direttore esecutivo di Shipbreaking platform-. Questa realtà richiede l’introduzione e l’applicazione di misure che ritengano effettivamente responsabili i reali proprietari effettivi delle navi, indipendentemente dalle bandiere utilizzate e dai porti di partenza”. 

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati