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Il biologico cresce. La sua anima resiste?

Gaelle Marcel - Unsplash

I numeri del bio sono in ascesa costante ma il mercato è più concentrato e influenzato dalla Gdo. Occorre un cambio di passo, aprendosi all’economia sociale. La rubrica della “Rete Semi Rurali” a cura di Riccardo Bocci

Tratto da Altreconomia 233 — Gennaio 2021

A novembre 2020 è stato pubblicato il rapporto di Bio Bank che fotografa il mondo del biologico. Un primo dato emerge chiaramente. Anche in questo periodo di crisi il bio cresce a due cifre: più 11% di vendite rispetto al 2019. In questi anni, però, è cambiato il panorama del mercato del biologico: i negozi specializzati hanno ceduto il passo alla grande distribuzione organizzata (Gdo) e al discount. Nel 2011 l’incidenza della Gdo nel bio era del 27%. Oggi è arrivata al 47%, e, in maniera speculare, quella dei negozi è scesa dal 45 al 21%. Inoltre, se compariamo le vendite in milioni di euro, dal 2011 ad oggi la Gdo è passata da 545 milioni di euro a 2 miliardi, mentre i negozi bio sono rimasti più o meno costanti da 895 agli attuali 924 milioni di euro. Aumenta anche il numero di prodotti bio a marchio del distributore, elemento che indica il controllo delle filiere da parte della distribuzione, con Coop leader attuale del mercato con 750 referenze. In parallelo, nel mondo dei negozi specializzati stiamo assistendo alla concentrazione delle catene distributive, con EcorNaturaSì che ha acquisito i negozi Biobottega e Piacere Terra, arrivando a un totale nazionale di 297 supermercati tra franchising e di proprietà.

4.358: nel 2020 le vendite di prodotti bio sono stimate in 4.358 milioni di euro sul mercato interno e 2.619 milioni per l’export (Fonte: Bio Bank)

Da un lato non si può che registrare positivamente la scelta bio del consumatore italiano, ma dall’altro è necessario fare alcune riflessioni. Il ruolo crescente di Gdo e discount, e la scomparsa dei piccoli negozi, pionieri storici del bio, sono indici di una costante tendenza alla concentrazione del settore e, se così si può dire, di una sua “convenzionalizzazione”. Infatti, il bio delle origini non aveva a cuore solo la certificazione del prodotto, ma si faceva promotore di una spinta etica e sociale per cambiare l’agricoltura convenzionale, basata su uniformità, industrializzazione, compressione della forza lavoro, drenaggio del valore aggiunto verso le ultime parti della filiera (trasformazione e commercio), costi ambientali non contabilizzati nel prodotto e prezzi bassi pagati agli agricoltori. Questa spinta non è più garantita dall’attuale certificazione biologica. Inoltre, la sfida di diversificare i sistemi agricoli a partire dal seme mal si concilia con l’uniformità del panorama del settore distributivo.

Come uscire da questa situazione? Come evitare che i valori del bio restino soffocati dal suo stesso successo commerciale? Sono necessari una nuova visione e un cambio di passo da parte degli attori dei negozi specializzati, che, invece di seguire metodi, strategie e messaggi pubblicitari della Gdo, dovrebbero rilocalizzarsi nei territori facendo rete con i soggetti sociali lì attivi. Aprirsi a un’economia finalmente sociale che si faccia carico di chi anima culturalmente la relazione città/campagna. Non mero marketing, ma sostegno a quei processi sociali che stanno contribuendo a fare innovazione nelle aree rurali. Anche in questo caso la parola chiave è diversificare: favorire la diversità di approcci, esperienze, pratiche e mercati, e trasformarle in cultura civica diffusa. Non è una sfida facile. Presuppone la capacità di rimettere in gioco il modello di business degli attori economici.

Il rischio, se falliremo, è di finire come negli Stati Uniti, dove, ci ammoniva già 12 anni fa Michael Pollan nel suo libro “Il Dilemma dell’Onnivoro” (Adelphi, 2008), si produceva formaggio biologico da latte in polvere bio proveniente dall’Australia. Tutto rigidamente certificato, ma socialmente e ambientalmente insostenibile e assolutamente insapore. Ma chissà se noi consumatori saremo poi in grado di accorgecene.

Riccardo Bocci è agronomo. Dal 2014 è direttore tecnico della Rete Semi Rurali, rete di associazioni attive nella gestione dinamica della biodiversità agricola

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