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Interni / Intervista

I movimenti sociali e la repressione poliziesca: un problema democratico

Gli scontri tra polizia e manifestanti a Torino il primo maggio 2022 © Edoardo Sismondi / Fotogramma

Con sempre maggiore intensità le lotte di studenti, lavoratori o attivisti per il clima sono oggetto di una dura risposta da parte delle istituzioni. Con la sostanziale impunità degli agenti. Intervista all’avvocato Claudio Novaro

Tratto da Altreconomia 252 — Ottobre 2022

Uno Stato che sempre meno gradisce che le persone si riuniscano per manifestare e tende sempre più a contrastare duramente chi protesta in forma associativa. I fatti del G8 di Genova, la repressione della lotta No Tav, ma anche il contrasto alle manifestazioni degli studenti contro l’alternanza scuola-lavoro, oppure, sempre nell’ottica repressiva, le perquisizioni contro i Fridays for Future, offrono motivi di conferma in questo senso. Ne abbiamo parlato con Claudio Novaro, avvocato penalista di Torino, che da sempre difende quelli che oggi vengono abitualmente definiti “antagonisti” .

Avvocato Novaro, ha vissuto dall’interno la lotta della popolazione valsusina contro la grande opera del Tav. Come si è posta la “giustizia”, intesa come Procura della Repubblica, di fronte a questa lotta?
CN
Anzitutto, per perseguire i reati commessi per contrastare l’opera, la Procura della Repubblica presso il tribunale di Torino ha costituito anni fa un pool apposito di magistrati, drenando uomini e risorse da altri settori e predisponendo una corsia preferenziale per l’avanzamento spedito dei processi. Il fatto curioso è che questo pool fu costituito nel gennaio 2010, quando era stato commesso un solo modesto reato, costituito da un’occupazione di terreni per impedire un carotaggio. È la dimostrazione di una scelta strategica sul piano repressivo, che si accompagnerà poi ad una serie di iniziative particolari, legate agli ampi margini di discrezionalità, che la Procura ha acquisito nell’ambito delle proprie competenze, come ad esempio quella di richiedere spesso e volentieri misure cautelari contro gli attivisti. Più in generale, la repressione giudiziaria ha assunto nei fatti le caratteristiche di un modello di tipo “alluvionario”, perché è stata avviata e istruita un’enorme mole di processi, anche per fatti bagatellari, spesso con qualificazioni giuridiche incongrue o sovradimensionate, con la consapevolezza che anche modeste condanne, quanto a sanzioni irrogate, se ripetute nel tempo hanno l’effetto di inibire e disattivare la partecipazione collettiva.

Se ne evince che la Procura riteneva che questi reati, anche quelli minori, dovessero avere una corsia preferenziale. Se non sbaglio individuò anche una configurazione di reato come quello di agire con finalità terroristiche: il cosiddetto “teorema Caselli”.
CN Quando fu istituito il presidio della Maddalena nel 2011 a Chiomonte, questo fu visto dalla polizia e dalla magistratura inquirente come un’esemplificazione del controllo capillare del territorio esercitato dal movimento, quasi una sorta di attacco alla sovranità dello Stato: l’ipotesi affacciata in più occasioni era che si stesse passando dalla protesta sociale al tentativo di sovvertire l’ordine costituito. Questa costruzione ideologica trovò ulteriore alimento nell’assalto al cantiere nel maggio 2013, quando una ventina di persone lanciò alcune bottiglie molotov dentro al cantiere di Chiomonte con l’intento di sabotare alcuni macchinari. Sulla scorta di questa azione, con un salto qualitativo sul piano interpretativo, la magistratura qualificò tale assalto come terroristico. “Si è assistito a una vera azione di guerra”, disse in quella occasione lo stesso Gian Carlo Caselli (capo della Procura della Repubblica di Torino all’epoca, ndr).

In realtà, non era la prima volta che la categoria del “terrorismo” faceva la sua comparsa nelle vicende legate alla resistenza No Tav. Già in precedenza era stata usata, almeno in un paio di occasioni, con la contestazione del reato di associazione eversiva o con finalità terroristiche. In realtà, le contestazioni di reati associativi per vicende legate alla protesta sociale possiedono una specifica, per quanto atipica, utilità di fondo. Lo schermo associativo -che consente di effettuare con continuità e maggior ampiezza intercettazioni ambientali e telefoniche- serve non solo all’acquisizione di informazioni sui fatti oggetti del procedimento ma soprattutto a mantenere un monitoraggio investigativo continuo su di una specifica area politica o sociale. Non è un caso che poi di frequente tali procedimenti vengano archiviati, ma hanno, nel frattempo, permesso un controllo capillare e pervasivo sulla vita dei militanti dei movimenti. Sempre nel 2013, la Procura fece fare delle perquisizioni a casa di alcuni giovani esponenti No Tav giustificandole con la possibile esistenza di una associazione terroristica. Si trattava, io credo, di una prima verifica sul campo di quel “teorema” che sarebbe poi stato applicato di lì a poco contro alcuni assalitori del cantiere, di cui ho detto prima. Che infatti furono colpiti dalla misura della custodia cautelare in carcere, richiesta dalla Procura, confermata prima da un giudice, e poi dal tribunale del riesame. Ci volle l’intervento della Cassazione per smontare quell’impianto accusatorio. In alcuni recenti procedimenti, poi, mi pare che ci sia addirittura un tentativo da parte della magistratura inquirente di qualificare come sovversivo chiunque si contrapponga violentemente alle decisioni della maggioranza parlamentare o del governo democraticamente eletti. Questo significherebbe che qualsiasi forma di protesta nei confronti di legittime decisioni assunte da Parlamento o governo diviene sovversiva se attuata con forme violente. Il che è davvero preoccupante.

“Uno Stato che attraverso la sua polizia tenta di neutralizzare qualsiasi forma di conflitto sociale dimostra una svolta in senso autoritario”

La repressione che ha caratterizzato la lotta No Tav non è un caso isolato. Non le sembra che ogni volta che si verifica un’opposizione lo Stato, ai diversi livelli, vada allo scontro o addirittura provochi lo scontro? Pensiamo al G8 di Genova nel 2001, ma anche alle recenti manifestazioni degli studenti contro l’alternanza scuola-lavoro, a Comala, oppure, sempre nell’ottica repressiva, alle perquisizioni contro i Fridays for Future.
CN La deriva c’è sicuramente: polizia e una parte della magistratura sembrano quasi non aver metabolizzato che la protesta sociale è del tutto legittima, che accanto alle esigenze di tutela della sicurezza nel corso delle manifestazioni pubbliche vi sono quelle connesse alla partecipazione politica dei cittadini, che costituiscono a loro volta l’essenza stessa del sistema democratico. Sicuramente alla disinvoltura con cui si consente l’utilizzo dei dispositivi repressivi giova la sostanziale impunità di cui godono le forze dell’ordine. Durante la lotta No Tav ci sono stati molti episodi, regolarmente denunciati, di violenze perpetrate da polizia o carabinieri, ma non un processo è stato celebrato al riguardo.

L’impunità deriva anche dall’impossibilità spesso di individuare i colpevoli. Saprebbe dare una spiegazione del perché le forze dell’ordine non abbiano ancora un codice identificativo, come ad esempio accade in Francia?
CN Il 19 settembre 2001, dopo i fatti del G8 di Genova, il Consiglio d’Europa approvò il “Codice etico europeo di polizia” che, tra le altre cose, invitava gli Stati membri a far sì che nel corso di manifestazioni pubbliche ciascun agente di polizia fosse riconoscibile e identificabile. Nonostante questo, l’Italia non si è mai adeguata, anche per l’opposizione delle forze politiche di destra e dei sindacati di polizia. Ma vi è un altro tipo di impunità altrettanto pericoloso che si verifica quando le dichiarazioni o le ricostruzioni false e/o reticenti rese nei processi da parte di esponenti delle forze dell’ordine non vengono in alcun modo perseguite. Purtroppo mi è capitato più volte.

Dopo i fatti del G8, il Consiglio d’Europa approvò il “Codice etico europeo di polizia” che invitava gli Stati a rendere identificabili gli agenti. L’Italia non si è mai adeguata

Ci si avvia verso uno Stato autoritario?
CN L’Italia non è la Turchia. Ma uno Stato che, attraverso la sua polizia, tenta di desertificare, neutralizzare qualsiasi forma di conflitto sociale dimostra una svolta in senso autoritario delle regole democratiche. 

Come avvocato difensore dei No Tav può esprimere anche un giudizio sull’informazione fornita dai canali mainstream alla lotta?
CN L’azione della magistratura inquirente, con il frequente sovradimensionamento dei fatti, ha trovato sicuramente una sponda nella comunicazione giornalistica, il cui esito è spesso stata una rimodulazione della percezione del conflitto sociale nell’opinione pubblica. È significativo che una lotta di popolo di lunga durata, come quella No Tav, venga quasi sempre rappresentata e raccontata come una questione di ordine pubblico. Del resto alla costruzione del Tav sono interessati i poteri forti economici, che sono gli stessi che spesso hanno in mano i grandi organi di informazione. 

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