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Diritti / Approfondimento

I morti senza nome lungo la frontiera tra Francia e Italia

Un ragazzo pachistano cammina lungo la vecchia linea ferroviaria che porta a Ventimiglia e al punto di distribuzione alimentare gestito dalla Caritas © Michele Lapini

Dal 2015 sono almeno 37 le persone che hanno perso la vita nel tentativo di passare il confine a Ventimiglia, sempre più rischioso a causa della militarizzazione. L’impegno di attivisti e associazioni per restituire loro dignità

Tratto da Altreconomia 250 — Luglio/Agosto 2022

I ricordi di Hassan si susseguono uno dopo l’altro, senza sosta, confondendosi sul piano spazio-temporale: sembra che le morti sul confine italo-francese di Ventimiglia siano avvenute tutte il giorno prima al nostro incontro. “Sono giovani, sono tutti giovani”, spiega con la rabbia di chi ha toccato con mano i corpi dei defunti e il dolore dei familiari che, quando è possibile, lo raggiungono per poter salutare un’ultima volta figli, nipoti, cugini o amici che erano in viaggio. Hassan Taki è il presidente del Centro culturale Fratellanza islamica della città e con il tempo è diventato un punto di riferimento che viene contattato a seguito di ogni “tragedia” al confine: morti per folgorazione, annegamenti, cadute accidentali in montagna. Eventi differenti legati da un’unica causa -la chiusura e la militarizzazione del confine- che comportano la necessità di attivare un processo di identificazione dei morti con tutte le difficoltà che questo comporta. “Non è soltanto assicurarsi che il nome che viene dato a quella persona sia effettivamente il suo -spiega Filippo Furri, ricercatore associato per i progetti Morti in contesto di migrazione (Mecmi) e un secondo incentrato sull’impatto del Covid-19 sulla migrazione (Mocomi)- ma anche dare risposte a chi sta cercando quella persona, a partire dai familiari. E per i morti in frontiera è sempre complesso”. 

Proprio per studiare come le istituzioni e la società civile si attivino in seguito a una morte di frontiera, Furri ha trascorso oltre sei mesi a Ventimiglia ed è “ripartito” da una data precisa. Il 7 ottobre 2016 Mjmelet Berhal Tasfemariam, 16 anni, originaria dell’Eritrea, muore investita da un tir nell’ultima galleria autostradale prima del confine. La giovane è una delle prime vittime di quella militarizzazione seguita alla reintroduzione dei controlli in frontiera da parte delle autorità francesi, dall’11 giugno 2015. Secondo una ricerca condotta da Cristina Del Biaggio e Sarah Bachellerie di Border forensics, organizzazione che si occupa di far luce sulle pratiche di violenza ai confini, da quel momento in poi sono 37 le persone morte nel tentativo di attraversare il confine “basso” italo-francese (dal 2000 al 2015 sono stati registrati zero decessi).

Con la morte di Mjmelet le autorità di Ventimiglia si trovarono così a dover affrontare la “gestione” del corpo e tutto ciò che ne consegue, dal funerale all’eventuale rimpatrio della salma, di una persona “invisibile” per le istituzioni. Una procedura che proprio in quegli anni, con l’aumento del numero di persone sbarcate in Italia e dei naufragi nel Mediterraneo centrale si sviluppava nei capoluoghi di provincia siciliani. Proprio a Catania Furri -insieme all’antropologa Carolina Kobelinsky- ha cominciato a studiare le modalità di risposta dei diversi attori che si attivavano a seguito del naufragio e del recupero dei corpi. Un’esperienza che l’ha portato anche al confine italo-francese: “Volevo approfondire le analogie e le differenze tra quello che succede sui confini interni e quelli esterni”. Da giugno a dicembre 2021 il ricercatore, in collaborazione con l’antropologa Françoise Lestage, professoressa all’Università di Parigi VII Denis Diderot, ha condotto interviste ai funzionari comunali, ai magistrati della procura della Repubblica, agli enti del territorio che si occupano di accoglienza e sostegno alle persone in transito così come i “solidali” -progetti non istituzionali- come ad esempio 20K. 

“A differenza di quanto succede nel Mediterraneo -aggiunge Furri- sono eventi che riguardano morti individuali, non di gruppo, e soprattutto non si parte da zero”. Spesso, infatti, le persone che tentano di attraversare il confine a Ventimiglia sono già state registrate al momento dello sbarco in Italia, oppure hanno già trascorso dei periodi sul territorio, per poi decidere di spostarsi in un altro Paese. “Questo fa sì che il ruolo della società civile sia molto più importante rispetto ad altre frontiere. La domanda più importante per me è cercare di capire se l’identificazione viene sempre fatta tramite il ricorso a un familiare, al patrimonio genetico oppure a volte è la persona che si auto-identifica attraverso, ad esempio, le impronte digitali che ha lasciato nel periodo di permanenza sul territorio o un documento trovato negli indumenti quando è morta”. Questa differenza è sostanziale: nel primo caso la famiglia è parte del processo, nel secondo no. “Il più delle volte le informazioni fornite nella fase di registrazione sono false -spiega Lestage-. Per ‘sfuggire’ alle politiche migratorie, la maggior parte delle persone fornisce nomi, età e persino Paesi di origine falsi. Così quando muoiono, siccome la polizia si basa solo sui dati forniti in fase di primo ingresso nell’Unione europea si rischia di non conoscere il nome reale del defunto”. Un problema anche per la famiglia che non può trovare chi sta cercando. 

Il tasso di riconoscimento in Italia delle persone morte nel Mediterraneo centrale nel tentativo di raggiungere l’Europa tra il 2014 e il 2019 è del 27%. I corpi sono 964, esclusi quelli delle circa mille vittime del naufragio del 18 aprile 2015 che seguono una procedura parallela

Sul lato italiano Furri sottolinea il ruolo di primo piano della società civile che spesso “rispetto alle istituzioni ha molte più informazioni e contatti con le comunità di appartenenza, maggior facilità a contattare i familiari, più possibilità di aver incontrato la persona prima della sua morte”. Tra queste anche Taki e il suo centro, che spesso incontrano le persone prima che attraversino il confine e poi si occupano di garantire una sepoltura dignitosa. “Il 95% delle persone che perdono la vita sono musulmane -spiega Taki-. Per questo vengo contattato spesso”. Uno dei suoi compiti è assicurarsi che il ghusl mayyit, il rituale che prevede il lavaggio e l’avvolgimento del defunto in un lenzuolo prima della tumulazione, sia realizzato. Almeno quando è possibile. “Se le persone muoiono per le scariche elettriche dei pantografi dei treni il loro corpo è carbone, non riusciamo. In altri casi è la stessa procura a sconsigliarci di aprire il ‘sacco’ perché le persone sono sfigurate o senza arti”. 

Taki conosce così anche ciò che del sistema non funziona. “Non mi scorderò mai del dolore dei familiari di un giovane di origine siriana annegato perché non sapeva nuotare e passato nel nostro centro prima di tentare l’attraversamento. Abbiamo dovuto pagare 250 euro solo per il trasferimento della salma in obitorio. Anche la sofferenza in questo Paese non è gratuita. Le spese per il rimpatrio della salma sono alte, parliamo di 3-4mila euro ma su questo la nostra comunità non si tira indietro: ogni volta in pochi giorni raccogliamo il necessario. Una sepoltura dignitosa non si nega a nessuno, al di là del credo religioso”.

“Non mi scorderò mai del dolore dei familiari di un giovane di origine siriana annegato perché non sapeva nuotare e passato nel nostro centro prima di tentare” – Hassan Taki

Per Maurizio Marmo, presidente di Caritas Intermelia, che si occupa dell’assistenza legale, sanitaria e sociale di chi raggiunge Ventimiglia per attraversare il confine, anche l’impossibilità di avere uno spazio in cui ospitare chi è in transito incide indirettamente sull’identificazione. “Dopo il caso di Mjmelet, che aveva trascorso una notte nella chiesa di Sant’Antonio allora aperta all’ospitalità, in realtà, non ci è più capitato. Anche perché incontriamo le persone per pochi minuti al giorno, magari durante la distribuzione del pasto: spesso non conosciamo nemmeno i loro nomi perché non creiamo quella relazione che avremmo con accoglienze più strutturate”. Dalla chiusura del campo Roya il 31 luglio 2020 di fatto in città non è presente un luogo in cui le persone possono trovare rifugio salvo due alloggi per famiglie messi a disposizione dalla Diocesi e un servizio di emergenza per minori soli non accompagnati gestito da Diaconia Valdese e Save the Children. 

I dati forniti dalla Direzione centrale immigrazione e della polizia delle frontiere, in seno al ministero dell’Interno, dimostrano come i respingimenti effettuati dalle autorità francesi, ovvero le persone che sono state identificate oltre il confine e “riportate” sul suolo italiano, sono passati dai 16.808 del 2019 ai 24.589 del 2021. Chi vuole attraversare impiega più tempo e rischia di più. 

Il Centro culturale Fratellanza islamica ha dovuto pagare 250 euro per il trasferimento della salma di un giovane siriano affogato in mare nel tentativo di raggiungere la Francia

Il paradosso è che sul confine italo-francese la possibilità di essere identificato o meno dipende anche dal luogo in cui il tuo corpo viene ritrovato. Questione di competenza, francese o italiana, e un diverso approccio delle istituzioni. “In Francia è impossibile avere accesso ai documenti relativi all’identificazione della polizia e della gendarmeria -osserva Lestage- che si rifiutano di fornire queste informazioni e ritengono che non possano essere rese pubbliche. E questo è un problema perché non condividendo i dati con ricercatori, sacerdoti, familiari, il margine di errore è più alto”. 

Anche per questo l’obiettivo dei ricercatori è rendere la procedura di identificazione standard con la messa a punto di una strategia che permetta un incrocio delle informazioni più precisi. “Sono tre i livelli su cui lavorare: conoscere dove le persone sono state sepolte, sapere se la famiglia è al corrente e alla ricerca, avere una lista degli eventi aggiornata. Questa è la base per svolgere un buon processo di identificazione. E poi, anche se è molto difficile, lavorare sulle zone pre-frontiera: il Marocco, ad esempio, ma non solo. Con l’organizzazione EuroMedrights si sta cercando di mutare le conoscenze acquisite su un progetto in Maghreb, e in particolare per il momento in Tunisia. Il gruppo di persone con cui chi muore ha vissuto i suoi ultimi giorni possono essere fondamentali per identificarlo”. 


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