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Diritti / Approfondimento

I marchi del lusso non sono trasparenti rispetto all’origine dei loro prodotti in pelle

© SOMO

L’Ong SOMO ha indagato le filiere di oltre quaranta brand di alta moda: solo nove rendono pubblico l’elenco dei propri fornitori diretti. Tra quelli che non lo fanno figurano Armani, Versace, Michael Kors e Coach, che non hanno nemmeno risposto alle richieste dei ricercatori. E che denunciano un deficit “preoccupante”

È quasi impossibile sapere da dove provengono e in quali condizioni sono stati conciati e confezionati i pellami utilizzati per realizzare borse, giacche e accessori di lusso griffati Armani, Versace, Michael Kors o Coach. Quella della pelle, infatti, è un’industria opaca, oltre che estremamente problematica per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, come evidenzia l’inchiesta “Shine a light on leather” pubblicata il 3 novembre 2022 da SOMO, Ong olandese che indaga i comportamenti e le politiche delle multinazionali, e che ha messo sotto la lente le catene di rifornimento di cento marchi in due segmenti specifici: le calzature e il lusso.

Dei 44 marchi individuati all’interno di quest’ultimo comparto, solo nove rendono noti i propri first-tier suppliers (fornitori diretti). E se si va alla ricerca di informazioni relative ai precedenti anelli della catena, le aziende che forniscono “alcune informazioni su impianti di lavorazione e venditori di materie prime” scendono ad appena quattro (Bally, Chloé, Fendi e Zegna). “La nostra analisi mostra come i brand del segmento del lusso siano particolarmente in ritardo. Questo è sconvolgente: se un’azienda conosce le realtà da cui si approvvigiona e la propria supply chain non ha motivo di non rendere pubblici questi dati. Se invece non sa chi siano i propri fornitori, questo solleva una serie di dubbi sulla sua due diligence”, spiega la ricercatrice di SOMO Martje Theuws.

Per svolgere la ricerca l’Ong ha utilizzato fonti pubbliche, tra cui i siti delle stesse aziende e il database Open Apparel Registrer gestito da Open Supply Hub, organizzazione non profit che monitora e mappa gli impianti di produzione e le filiere del comparto tessile. Inoltre ha chiesto ad Armani, Coach, Michael Kors e Versace di rispondere agli interrogativi sulla mancata pubblicazione dell’elenco delle realtà da cui si riforniscono, senza ricevere però alcun riscontro.

Altrettanto critica la situazione del comparto calzature: solo 13 tra marchi e rivenditori dei 49 analizzati forniscono informazioni sui loro fornitori diretti, mentre appena sei arrivano ai livelli successivi della catena di approvvigionamento. SOMO evidenzia come la pubblicazione degli elenchi dei fornitori rappresenti uno strumento importante per permette a diversi soggetti (tra cui investitori e consumatori) di tracciare l’origine dei prodotti e sia un primo importante passo per garantire condizioni di lavoro dignitose.

Nel complesso per SOMO si tratta di una situazione “preoccupante”, dal momento che l’industria della pelle è notoriamente associata a violazioni dei diritti dei lavoratori e inquinamento ambientale: “Non rendendo pubblico l’elenco dei propri fornitori, numerosi marchi non rispettano nemmeno gli standard più elementari”. Sui cento brand analizzati nemmeno un terzo (29) ha pubblicato le informazioni relative ai propri first-tier suppliers e solo 17 hanno offerto un livello di dettaglio maggiore indicando, ad esempio, gli stabilimenti in cui si svolgono le lavorazioni. Nessuno dei marchi analizzati ha dato indicazioni sugli stipendi dei lavoratori e appena quattro hanno pubblicato qualche elemento rispetto alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva. Solo uno (Zegna) nel segmento del lusso. “Queste aziende elaborano documenti e rapporti, alcuni dei quali presentano un quadro molto positivo della loro responsabilità aziendale, ma la mancata pubblicazione degli elenchi completi dei fornitori è problematica. La dispersione delle informazioni sui problemi della catena di approvvigionamento non consente una valutazione adeguata”, osserva ancora Martje Theuws.

Quella della pelle è una filiera lunga e complessa che presenta diverse criticità, a partire dalla scarsa trasparenza. Il processo che va dalla macellazione dei capi di bestiame alla produzione di un capo finito prevede diverse fasi (dalla conciatura alla tintura, dal taglio al confezionamento) non solo interessa diverse aziende ma si svolge anche in più Stati. Bangladesh, India e Pakistan sono tra i principali produttori di pelli semi-lavorate per il mercato internazionale e ciascuno di questi ha una propria nicchia con il relativo comparto di produzione (guanti per il Pakistan, calzature per il Bangladesh, borse e valigie per l’India). Il confezionamento avviene solo in parte in questi Paesi, mentre una quota significativa di pellami grezzi viene esportata nei due principali Paesi trasformatori: Cina e in Italia.

Le realtà produttive, inoltre, variano notevolmente in termini di dimensioni: si va dalle attività domestiche (con significative sacche di lavoro informale) alle piccole fabbriche semi-artigianali fino ai grandi produttori che integrano verticalmente tutta la filiera. “In questa industria globale -osserva SOMO- i produttori, i brand, i grossisti e i dettaglianti si procurano, trasformano e producono in diversi Stati. A causa dell’opacità intrinseca della filiera, le informazioni pubbliche sull’origine di pelli e cuoio sono scarse”.

Salari bassi, orari eterni e precarietà del posto di lavoro sono condizioni frequenti per gli operai impiegati in questa produzione che, tra l’altro, li espone a gravi rischi per la salute a causa del contatto e dell’inalazione di sostanze tossiche. Condizioni denunciate all’interno del report “Employment and working conditions in Bangladesh’s leather industry” pubblicato lo scorso settembre da Togheter for decent leather, un programma di azione triennale a cui partecipano organizzazioni asiatiche ed europee tra cui appunto SOMO.

Il Bangladesh produce circa 32 milioni di metri quadrati di pelle all’anno (destinata per l’80% all’esportazione) per un valore di oltre 941 milioni di dollari nel 2021, pari al 2,4% del totale delle esportazioni del Paese. L’indagine è stata condotta su 120 lavoratori delle concerie del distretto di Dacca: il 95% è stato assunto senza un contratto firmato o altri accordi formali, più della metà riceveva un salario mensile inferiore rispetto al minimo nazionale di 13.500 taka (133 euro) stabilito dal governo per i lavoratori delle concerie.

“Lavorano per lunghe ore, a volte con straordinari forzati, e sono soggetti alle pretese dei loro datori di lavoro a causa dello scarso attivismo sindacale e della debole rappresentanza dei lavoratori”, denuncia il report. Frequenti e diffusi sono anche i problemi di salute a causa delle condizioni insicure e della mancanza di dispositivi di protezione (tre quarti degli intervistati ha dichiarato di non averli): il 28% soffre di malattie della pelle, il 13% di respiro corso, il 32% di disturbi allo stomaco e il 63% di mal di test. Inoltre, il 79% non ha una formazione su come utilizzare in modo sicuro i prodotti chimici necessari alla conciatura.

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