Altre Economie
I crocevia della pace – Ae 87 –
Come Aviano o, negli anni Ottanta, Comiso. In dicembre la tre giorni di Vicenza peserà più della tradizionale marcia Perugia-Assisi. Perché qui la partita è ancora aperta Vicenza è un crocevia per la pace. Come lo è stato, negli ultimi…
Come Aviano o, negli anni Ottanta, Comiso. In dicembre la tre giorni di Vicenza peserà più della tradizionale marcia Perugia-Assisi. Perché qui la partita è ancora aperta
Vicenza è un crocevia per la pace. Come lo è stato, negli ultimi anni, Aviano. O, negli anni Ottanta, Comiso. A metà dicembre la città veneta ospita una manifestazione europea di tre giorni contro il raddoppio della base Usa di Camp Ederle. I cittadini riuniti nell’assemblea permanente “No Dal Molin” -è il nome dell’aeroporto civile che dovrebbe lasciare spazio a quello militare- sono un simbolo dell’Italia che non vuole la guerra.
È per questo che oggi la tre giorni di Vicenza “pesa” di più della (tradizionale) marcia della pace tra Perugia-Assisi. Perché in Veneto possiamo ancora fermare un processo del quale abbiamo denunciato (anche noi di Ae, sul n. 80) gli impatti economici, sociali e ambientali. E il movimento pacifista ha bisogno di speranze. Negli ultimi anni abbiamo preso troppe batoste. Abbiamo marciato contro la guerra in Afghanistan, che ci ha colto ancora imbambolati dopo il G8 di Genova e la tragedia dell’11 settembre. L’esercito italiano è ancora là, e sono passati sei anni. Nel 2003 abbiamo colorato d’arcobaleno i balconi e le finestre delle nostre case. Le bandiere della pace sono state il simbolo della nostra opposizione alla politica di guerra del governo di Berlusconi. Nel febbraio del 2003 Roma è stata teatro della più grande marcia della pace del mondo (nella foto a sinistra). Tutto inutile: l’esercito italiano è stato inviato in Iraq, a fianco di quello degli Stati Uniti d’America. Oggi che i soldati sono stati richiamati, il governo (di centrosinistra) ha mandato dei militari privati, contractors (vedi Ae n. 83).
Niente da dire: la pace si costruisce a piccoli passi, giorno per giorno. Iniziando da casa nostra. La manifestazione nazionale contro il raddoppio della base di Vicenza, che si è tenuta nel febbraio del 2007, ha riunito decine di migliaia di persone.
Il 30 settembre è stata lanciata una proposta di legge d’iniziativa popolare per dichiarare l’Italia “Paese libero da armi nucleari”. Tra i promotori ci siamo anche noi di Altreconomia. Servono 50 mila firme (www.unfuturosenzatomiche.org). Nel nostro Paese -che pure ha ratificato nel 1975 il Trattato di non proliferazione nucleare- sono stoccate 90 bombe nucleari. Tutte tra Aviano, in Friuli Venezia Giulia, e Ghedi, nel bresciano.
Al tribunale di Pordenone, intanto, è in corso un processo intentato da alcuni pacifisti per chiedere la rimozione delle atomiche presenti ad Aviano (www.vialebombe.org). Sono sassi per inceppare la macchina da guerra italiana, che continua a crescere. Il governo nella finanziaria 2007 ha destinato alla Difesa 21 miliardi di euro, l’11 per cento in più rispetto all’ultima manovra di bilancio del centrodestra. Fondi pubblici che alimentano l’industria delle armi. Nel 2006 le banche italiane hanno rilasciato autorizzazioni all’esportazione per ben 2,19 miliardi di euro, contro gli 1,36 miliardi del 2005. Sono i volumi più alti degli ultimi 10 anni, superano di poco il picco del 1999. Poche banche si sono impegnate seriamente a “disarmare”. Chi lo ha fatto, Intesa per esempio, è poi tornato sulla propria strada. La trasparenza (obbligata dalla legge 185 del 1990) ci permette di scegliere, come consumatori pacifisti, quelle banche che non entrano nella lista. Le banche di credito cooperativo, o Banca Etica.
Ma non basta: servirebbe anche qualche idea per riconvertire l’industria bellica, ma la legge è ancora lontana dall’agenda del Governo italiano.
Intanto ci siamo abituati alle guerre del dopo 11 settembre: quelle in Afghanistan e in Iraq sembrano esserci da sempre. La spesa militare mondiale, monitorata dal Sipri (il prestigioso Stockholm International Peace Research Institute), continua a crescere. Nel 2006 ha sfondato il tetto dei 1.200 miliardi di dollari (più 3,5% rispetto al 2005 e più 37% negli ultimi 10 anni). 184 dollari per ogni cittadino della terra. Le altre guerre, quelle dimenticate che hanno insanguinato il corno d’Africa, il Sudan, il Congo, sono scomparse dai nostri giornali e dalle nostre menti. È solo grazie a realtà come i Beati i costruttori di pace e la campagna Sudan che anche noi di Altreconomia e i nostri lettori non le abbiamo perse di vista. Alcune storie ci ricordano che i conflitti possono finire, come quello nella Repubblica Democratica del Congo, la guerra mondiale africana, di cui abbiamo raccontato le prime elezioni libere (Ae n. 79). Una speranza di pace.
Il commento
La guerra normale
di Alex Zanotelli
La guerra sembra tornata una normalità. Secondo il Sipri, nel 2006 le spese militari a livello mondiale sono tornate a superare i 1.200 miliardi di dollari. In Italia, con la Finanziaria 2007, il governo Prodi ha approvato il più alto bilancio della Difesa degli ultimi anni, oltre 17 miliardi di euro. Altri 4 miliardi di euro sono stati stanziati per la ricerca in campo militare e si vogliono anche costruire gli F35 e mandare agli 250 militari in Afghanistan.
È una situazione che fa paura, e davanti alla quale il movimento per la pace -quello capace di far marciare a Roma 3 milioni di persone contro la guerra in Iraq, quello delle milioni di bandiere della pace alle finestre delle case- si presenta molto frammentato. Sente tutta la stanchezza di lottare senza ottenere granché. Paga interessi di “piccola bottega” e la presenza di forti personalismi.
Oggi anche la marcia Perugia-Assisi ha tolto la pace dal suo nome. Penso andrebbe riletta, per capire ciò che intendo dire, la lettera con cui Cindy Sheehan (la madre del soldato statunitense Casey, ucciso in Iraq nel 2004, ndr) si è “dimessa” dal movimento per la pace negli Usa.
Ci sono, però, bei segni di speranza. Il popolo italiano, che non ha voglia di militarizzazione. E poi le due leggi d’iniziativa popolare, quella sul nucleare -dal 30 settembre si raccolgono le firme- e una contro le basi. Mi conforta, soprattutto, il lavoro nelle realtà locali.
Per superare questo momento difficile, dobbiamo rimetterci insieme, al di là di divisioni tra chi è più o meno radicale. Dobbiamo adottare una logica di “nonviolenza attiva”, aveva ragione Martin Luther King. E dobbiamo riprendere con forza l’obiezione fiscale alle spese militari, un’opzione popolare che dovremmo rendere alla portata di tutti.
È una strategia per affrontare un momento molto grave per l’umanità intera. Potremmo essere alla vigilia di un attacco all’Iran, e gli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists’ hanno spostato in avanti le lancette dell’orologio della fine del mondo, il Doomsday Clock. Ormai mancano cinque minuti alla mezzanotte. Siamo ritornati a un clima di guerra fredda, Russia e Usa a fronteggiarsi. La prima ha esploso la sua superbomba e presentato la nuova, e terribile, “bomba a vuoto”. Gli Stati Uniti hanno deciso di far partire lo “scudo antimissile”, a cui hanno già aderito la Polonia, la Repubblica Ceca e anche l’Italia.