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I confini del distanziamento. Il racconto da Pontida, poco distante dai “desaparecidos” della pandemia
“Quando a Codogno è partita la vampata guardavamo attoniti questi ‘vicini di casa’, pochi compresero che sarebbe potuta toccare a noi, in tempi così fulminei e in forme così cruente. Prima la Valle Seriana, poi quella Brembana e poi, a macchia di leopardo, i focolai sono sbocciati in ogni dove”. Che cosa ci rimane. La testimonianza di Lorenzo Berlendis, docente, già vicepresidente di Slow Food
In queste ultime giornate a Pontida noto che gli squarci delle sirene si sono diradati. Approfitto delle mattinate “fuori stagione” per godere dello stare all’aperto, ultimando innesti e trapianti nel frutteto di famiglia. Mi illudo del raggiungimento di quel “picco” di cui tutti stiamo aspettando, da settimane, l’irrompere nella nostra drammatica quotidianità di “zona rossa”.
Sulla strada più in basso passano poche auto. Il silenzio è pressoché totale, anche di giorno. Dalle estreme propaggini delle colline della bergamasca occidentale, l’aria tersa mi permette di scorgere il Montorfano a Est e più oltre le Prealpi bresciane, forse il Monte Baldo. Il cielo non è sferzato dalle scie delle nuove rotte che da Orio vanno verso orizzonti d’oltralpe.
Ogni tanto, sospeso nel silenzio, gonfio d’aria i polmoni per improvvisare un test -faidate- della capacità respiratoria, rido di me stesso. Il martellamento su sintomatologie, prodromi e segnali di questo impalpabile flagello, rientra dalla finestra, per quanto lo si voglia cacciare dalla porta.
Quando a Codogno è partita la vampata guardavamo attoniti questi “vicini di casa”, pochi compresero che sarebbe potuta toccare a noi. Nessuno in tempi così fulminei e in forme così cruente. Prima la Valle Seriana, poi quella Brembana e poi, a macchia di leopardo, i focolai sono sbocciati in ogni dove. La futile esegesi della ricerca del “paziente 2”, ovvero dell’occasione madre del contagio, si è accompagnata alla progressione micidiale del virus. Chi è andato alla gloriosa impresa atalantina allo stadio di San Siro contro il Valencia, dove decine di migliaia di bergamaschi hanno sognato la scalata alla Champions League. Chi ha indicato altre sedi ed episodi.
Quel che è certo è che la prima linea a cadere è stata quella dei tanti pensionati ed anziani frequentatori di bocciofile, circoli dei lavoratori, case di riposo e di cura. Una strage immane. Ben più consistente delle cifre ufficiali. Il sindaco di un grosso paese della cintura bergamasca, nella prima settimana di marzo registra una cinquantina di decessi in più rispetto ad analogo periodo dello scorso anno, e della media ponderale. Solo il 10% di questi, conteggiati nei dati delle patologie ascrivibili al Covid-19, quelli cioè passati attraverso tamponi e strutture sanitarie, gli altri deceduti lontano dagli ospedali, quasi tutti per complicazioni respiratorie e polmonari, non entreranno nelle statistiche.
Lo stesso asseriscono, dati alla mano, i sindaci di Nembro, Villa di Serio cuore della martoriata Valle Seriana. E pare sia così, a detta dei virologi, per un numero importante di “desaparecidos” della pandemia.
Facendo buon uso di provvidenziale sobrietà, anziché improvvisarsi gendarme come altri suoi colleghi, il sindaco di Bergamo, già ai primi di marzo, aveva dichiarato la necessità di chiudere tutto, di anticipare le “ferie agostane” per riuscire a stendere con successo un cordone sanitario attorno ai focolai della virulenza infettiva, come a Taiwan e in Corea del Sud. Gori ha giocato un significativo ruolo come responsabile della comunità e anche qualcosa di più: ha fatto tesoro dei “bergamaschi del fare”, di un associazionismo diffuso e in ottima salute, portando a casa, per primo, la conversione di una struttura fieristica in ospedale da campo, quello dell’ANA, 160 posti, gestito da Emergency. Altrettanto provvidenziale la conversione di hotel, come il Wintergarden, dentro l’operazione “Abitare la cura”, promosso da Diocesi e Confindustria. Iniziative messe in campo per alleggerire la saturazione degli ospedali cittadini, in particolare del Papa Giovanni XXIII, recente gioiello della città ma insufficiente a reggere l’impatto dei numeri e delle necessità specifiche, sia materiali che umane.
“Qui l’epidemia è fuori controllo. Il nostro ospedale è altamente contaminato e siamo già oltre il punto del collasso: 300 su 900 letti occupati da malati di Covid-19, più del 70% dei posti di terapia intensiva sono riservata ai malati gravi di Covid-19, che abbiano una ragionevole speranza di sopravvivere”, scrive un gruppo di 13 medici sul New England Journal of Medecine Catalyst Innovations in Care Delivery.
Dichiarazione che mi ha rimandato alla call con i genitori dei miei alunni, uno dei quali infermiere che racconta affranto dei pianti di colleghe e colleghi di lavoro, isolati dai loro cari, provati dallo stress fisico e psicologico di chi non ha avuto pause e momenti di stacco e decompressione. Di chi assiste ed ha assistito, indifeso e impotente, ai muti sguardi supplici dei degenti in terapia intensiva, alla carenza di presidi di protezione per sé e per i pazienti, alla gragnuola di morti, all’intasamento di camere mortuarie e dispositivi di cremazione.
Impossibile non considerare come la costosa ristrutturazione del pubblico a vantaggio del privato, i tagli operati sulla sanità lombarda abbiano mostrato esiti divergenti. Accanto a eccellenze ospedaliere innegabili ci sono falle importanti nella prevenzione diffusa nei territori e nelle conseguenti capacità di programmazione e previsione, cause evidenti degli episodi di impreparazione a cui abbiamo assistito e a cui si dovrà con porre pensiero.
Lo stesso valga per il problema, enorme, del contagio di medici e personale sanitario: troppo scarse le disponibilità di materiali, troppo lente le procedure di protezione. Inaccettabile che oltre il 10 % di chi si dovrebbe curare della salute altrui sia stato investito da questa patologia. E lo stesso è valso per i medici di famiglia, medici spesso introvabili causa l’abnorme numero di pazienti destinati dagli accordi regionali a ciascun operatore. Oltre la collina qui dietro è spirato il dottor Giovita, storico medico condotto prossimo alla pensione.
In molti paesi, come a Misano Gera d’Adda, sindaco e amministrazione organizzano distribuzione a domicilio di generi di prima necessità. Nei piccoli centri di montagna, alcuni neanche piccolissimi per la verità, gli stessi sindaci si arrabattano con grande abnegazione a portare di casa in casa dei propri ammutoliti e spaventati concittadini medicine, generi alimentari. Suppliscono, in molti casi, alla sparizione delle botteghe di paese: comunità intere divenute, al pari dei quartieri dormitorio delle periferie urbane, non luoghi.
Le scelte sociali e politiche che ci hanno fatto scivolare in modo consapevole nell’illusione di una razionalizzazione concentratrice hanno cancellato dai piccoli centri panifici e verdurai, edicole e scuole, uffici postali e osterie, distruggendo quel reticolo quotidiano di relazioni, socialità e solidarietà a cui si deve, in casi di emergenza, porre riparo grazie alla necessaria quanto momentanea supplenza del volontariato, individuale e collettivo.
Ma questa, che è la normalità, produce effetti nefasti tutti i giorni. La sindrome da gregge ci si è infilata talmente sottopelle che la resistenza all’abbandono delle abituali passeggiate all’ipermercato, magari per riempire i fine settimana, ha aperto enormi crepe nel #iorestoacasa. Abitudini che, oltre ad aver dato una significativa mano alla diffusione del contagio, hanno reso, loro malgrado, forzati eroi dell’obbligato non-distanziamento cassiere e addetti di supermercati, inspiegabilmente aperti anche le domeniche. Spedizionieri legati alle consegne anche di generi e merci di nessuna urgenza. Lavoratori vittime prima della sindrome da accaparramento delle migliaia che hanno assaltato i centri commerciali, poi dei distratti acquirenti di un paio di scatole di pomodori o di una t-shirt, usciti tanto per cambiare aria in tempo di divieto. Eroi (?) al pari dei molti pendolari bergamaschi, sconosciuti allo smart working, che si incolonnano all’alba di ogni mattino alla volta dei cantieri di Milano. O dei loro colleghi impiegati ed operai che seguono identica tratta su treni e metro. Una quotidiana inarrestata processione verso i luoghi delle produzioni, anche non-essenziali, la cui lista divide sindacati e Confindustria, soprattutto ferisce il buon senso.
Sarà interessante capire, passata la tempesta, come ci accosteremo al concetto di “produzioni non-essenziali”, nuova categoria entrata nel lessico quotidiano. Chissà come considereremo, alla luce delle connessioni tra le forme di concentrazione e la repentina diffusione del contagio, quella delle produzioni industriali che fanno della Pianura Padana uno dei bacini più inquinati al mondo. Concentrazione che pone Cremona, Bergamo, Lodi, Milano quali regine delle classifiche nella presenza per esempio delle polveri sottili, quei particolati insidiosi altrettanto invisibili ai nostri occhi che debilitano le capacità respiratorie, fungono da acceleratori di decorsi patologici ad esse legati, come dimostrato anche in Mal’aria, annuale report di Legambiente, nonché dall’Agenzia europea per l’ambiente. Si tratta di numeri importanti: 60.600 in Italia nel 2015 le morti “premature” causate da inquinamento atmosferico.
Il preveggente divulgatore dei rischi dello “spillover”, il salto da un ospite animale a un umano, David Quammen, non ha dubbi: “È del tutto possibile che il danno ai polmoni delle persone, anche quando non si nota in circostanze normali, possa essere presente e sufficiente a renderle più vulnerabili a questo virus“.
Tornato alla ritualità quotidiana dell’ascolto del notiziario radiofonico cerco di trovare giustificazione per praticare un’altra forma di distanziamento: il diritto alla disconnessione. Investito come tutti dal flusso devastante dei social, dalle infinite sfilate di foto degli scomparsi, dai comunicati come fossero bollettini di guerra, dai deliri delle fake di chi si improvvisa virologo o sentenzia sgangherate previsioni o posta video di ogni tipo, pandemia nella pandemia. Tentativi chiassosi di sfuggire all’incombere ineludibile dell’angoscia.
Angoscia che si cerca di arginare negli ambiti più diversi. Ne è testimone Gigliola, docente e formatrice sulle nuove tecnologie nella didattica: “La scuola, investita di un grande sforzo innovativo, peraltro già in corso, rispetto alla didattica online, sta attivando a tappeto classroom e lezioni a distanza in ogni forma digitale possibile, cercando di sopperire alla naturale maggiore efficacia delle lezioni in presenza con la pirotecnica e illimitata disponibilità dei singoli. Docenti che, oltre essere oberati dai tempi ingenti della preparazione di lezioni online, si rendono figure di appoggio per genitori e alunni che vivono con grande sacrificio l’isolamento e l’inedia motoria. Anche le tecnologie più sofisticate, utilissime in frangenti come questo, nulla possono in fatto di sostituzione di un confronto dal vivo, di un abbraccio o di una pacca sulle spalle. L’apprendimento è fatto sociale e contestuale: studenti e, soprattutto alunni, non si danno ragione del distanziamento e del livello basso di interazione a cui sono costretti. Assillano genitori sfiancati con domande sul quando potranno riabbracciare compagni e maestri, sul perché questo o quel familiare è deceduto, insieme a tanti altri. E i genitori chiedono soccorso ai docenti. Reggere tutto questo rappresenta uno sforzo ben oltre le competenze professionali, molti insegnanti, che si sono presi carico di tutto ciò, vivono momenti di grande stanchezza fisica e psicologica”.
Sulla diffusa tenacia a queste latitudini mi confronto con un amico agricoltore, anche lui privilegiato osservatore da posizione sopraelevata della metropoli sottostante. Dalla barriera invalicata per secoli, sopra ai Ponti di Sedrina, Marco interroga il mare di luci che assediano il buio dei colli di Bergamo e le pendici dei suoi boschi. Anche lui ha registrato pulizia e silenzio, è riuscito a vedere lontano, come da tempo non gli riusciva di fare. Allevatore e casaro, titolare di uno storico agriturismo di mezza montagna, vive in una delle aree più colpite dal Covid-19 e si chiede retoricamente che senso abbia e avrà prepararsi a ripristinare quella normalità che ci ha regalato un ennesimo disastro condito da questa dolorosa decimazione.
Mentre tende l’orecchio ai lamenti di una vacca che deve partorire a minuti, fa pulizia della “bressana”, attento a non incorrere in incidenti sul lavoro che sarebbero altamente pericolosi in periodo di overflow sanitario. Marco sta considerando l’eventualità di cambiare qualcosa, di ridurre ritmi e carichi della sua occupazione pervasiva, fatta di ore e ore di lavoro non riconosciuto, di concorrenza impari con la grande distribuzione e la produzione di alimenti meno qualificati ma più convenienti, di prezzi di mercato incongruenti ottenuti con aste al ribasso, di quotazioni del latte-commodity offensive per chi nutre le vacche secondo la loro etologia e attitudine, di vuota retorica rispetto al valore delle piccole produzioni di montagna che assomma, stagione dopo stagione, abbandoni e rinunce.
“Mi dicono che siamo, anche noi, sommersi e sommessi eroi del quotidiano, coloro che procurano e offrono cibo e nutrimento per la comunità, notte e giorno, natale e ferragosto, sole e pioggia, salute e malattia. E Covid-19. Siamo anche, secondo altri, i custodi di quella biodiversità che preserva ambienti, territori e comunità e che gli scienziati ritengono il perno su cui agire per prevenire fenomeni come l’irruenza del virus nella biologia umana. Fa piacere ma così come siamo messi non abbiamo un grande futuro davanti. Lavorare e produrre nel rispetto degli ecosistemi non consente automaticamente di campare dignitosamente. Non posso chiedere ai miei figli o collaboratori di predisporsi alle fatiche mal ripagate che abbiamo dovuto affrontare io, mio padre Fermo, le generazioni che ci hanno preceduto. E l’abbandono delle cosiddette aree interne proseguirà inesorabile insieme alle deleterie progressive concentrazioni di attività e persone con le connesse perniciose conseguenze”.
Un anticipo di quanto leggo da Quammen: “Molte specie animali sono portatrici di forme di virus uniche. Ed eccoci qui come potenziale nuovo ospite. Così i virus ci infettano. Così, quando noi umani interferiamo con i diversi ecosistemi, quando abbattiamo gli alberi e deforestiamo, scaviamo pozzi e miniere, catturiamo animali, li uccidiamo o li catturiamo vivi per venderli in un mercato, disturbiamo questi ecosistemi e scateniamo nuovi virus” (il manifesto, 25 marzo 2020).
E sempre a proposito di spillover e di difesa della comunità umana, Y. N. Harari conviene che se di confini serve parlare oggi, proprio questo è l’unico da presidiare. Dobbiamo essere concentrati e preparati a lavorare sul non-attraversamento del confine tra le specie che è l’unica invasione che possa mettere in crisi l’umanità intera. Stiamo vivendo un’esperienza nuova, che nessun umano vivente ha vissuto. Ora, rispetto al lontano passato, abbiamo una medicina più efficiente ed efficace: abbiamo sequenziato il dna del virus in due settimane, sappiamo con certezza stabilire chi è infetto e chi no.
Abbiamo grandi opportunità di uscirne con la conoscenza e la condivisione delle informazioni, ma l’umanità deve imparare a considerarsi tale, comunità unica e solidale. Siamo tutti a bordo di quella navicella a forma di “arancia blu” che viaggia nello spazio interplanetario, dalla quale non possiamo scendere o far scendere qualcuno ma che possiamo abitare vivendo e praticando “il tempo della solidarietà non più della competizione”, come ha detto Carlo Petrini.
Finché non sarà così, ovunque e per tutti, avremo poche chance di vincere la sfida: una volta attraversato il confine, il virus non fa sconti e distinzioni. Così come avrebbero dovuto insegnarci le devastazioni imputabili ai mutamenti climatici.
Lorenzo Berlendis, docente, si occupa di sostenibilità socio-ambientale delle filiere. In Slow Food dal 2006, vice-presidente dal 2014 al 2018. È nel consiglio di amministrazione della cooperativa Altra Economia.
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