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I Comuni virtuosi compiono vent’anni. Portando un’idea sempre nuova di politiche pubbliche

© Gabriella Clare Marino - Unsplash

Nel maggio 2005 nasceva l’Associazione dei Comuni virtuosi, rete di enti locali impegnati nel promuovere azioni e progetti concreti legati ai temi della gestione del territorio, dell’efficienza e del risparmio energetico, dei nuovi stili di vita e della partecipazione attiva dei cittadini. Come è cambiata e quanto ancora smuove anche grazie al suo Premio annuale. Intervista al co-fondatore, Marco Boschini

Sono passati vent’anni dalla nascita dell‘Associazione dei Comuni virtuosi, rete di enti locali impegnati nel promuovere azioni e progetti concreti legati ai temi della gestione del territorio, dell’efficienza e del risparmio energetico, dei nuovi stili di vita e della partecipazione attiva dei cittadini.

Era il maggio del 2005, un’altra epoca: il presidente del Consiglio in Italia si chiamava Silvio Berlusconi, meno di quattro anni prima Genova aveva ospitato la riunione del G8, e in piazza lo slogan era “Un altro mondo è possibile”. In quel contesto, i Comuni virtuosi -attraverso le “buone pratiche”- davano l’esempio con l’obiettivo di indirizzare le politiche pubbliche.

“Parlare di sostenibilità non era pionieristico ma nemmeno alla moda”, spiega ad Altreconomia Marco Boschini. Vent’anni fa era assessore a Colorno (Parma), uno degli enti che fondarono l’Associazione dei Comuni virtuosi. Oggi è consigliere comunale a Parma e coordina la segreteria della rete, testimone della storia dell’associazione.

Boschini, come e in che ambito nacque l’idea?
MB L’idea era nata un paio d’anni prima, intorno alla Libera università di Alcatraz di Jacopo Fo, che con l’aiuto dei genitori, Dario Fo e Franca Rame, aveva iniziato a promuovere alcune ecotecnologie, dai riduttori di flusso al biodiesel, per affrontare il tema delle fonti fossili nel settore dei trasporti, organizzando una serie di appuntamenti per cittadini, curiosi e amministratori locali. In uno di questi si era attivata una curiosità reciproca con alcuni sindaci, assessori, consiglieri comunali: è nato un percorso, che portò a un convegno, che si tenne a Colorno, in preparazione alla nascita vera e propria che avvenne il 21 maggio nella sala consiliare di Vezzano Ligure (SP) grazie a quattro Comuni. Oltre a Vezzano Ligure e a Colorno c’erano Melpignano (LE) e Monsano, in provincia di Ancona, scelta come “capitale” dei Comuni virtuosi, sua sede legale. Oggi la sede operativa è a Parma, essendo io l’unico dipendente di una rete che coinvolge 153 Comuni. L’intuizione fu quella di mettere insieme le esperienze in corso sotto il tema ombrello della sostenibilità, con l’idea che enti e comunità locali potessero essere portatori di un’idea nuova di sviluppo capace di influenzare le politiche pubbliche.

Da quattro fondatori a oltre 150 iscritti, in un periodo che ha visto trasformare profondamente il ruolo degli enti locali e la loro capacità di spesa per garantire servizi al cittadino. Che valore hanno avuto le “buone pratiche” locali, la capacità di fare rete?
MB Per lunghi anni abbiamo pagato un muro e ci siamo scontrati con il disinteresse e la superficialità, lo snobismo con cui ci guardavano media e politica nazionale. Alla narrazione che cercavamo di fare obiettivano che difficilmente certe scelte potessero essere replicate ovunque, fuori dai piccoli Comuni. Le buone pratiche sono carine, simpatiche, utili, ma nei piccoli borghi di provincia; la Politica, con la P maiuscola, non può perdere tempo per queste inezie. Questo è il senso del messaggio. In più, il mondo è cambiato, quello degli enti locali in peggio: abbiamo visto un appesantimento burocratico, la riduzione delle risorse trasferite agli enti locali, prima un blocco del personale e poi la riduzione del turnover, quindi molti che vanno in pensione e pochi giovani, pochissima formazione. In pratica, la grande difficoltà di avere una macchina comunale che traduca l’intuizione politica in un’azione amministrativa efficiente. La maggior parte dei soci sono Comuni medio piccoli, tanti in Appennino o nelle aree interne, dove le istituzioni sovradimensionate continuano a cancellare servizi, a ridurre risorse per interventi di manutenzione, a chiudere gli uffici postali, a far sì insomma che per i cittadini sia sempre più difficile scegliere di restare. Questo è il contesto in cui si sono mossi, dimostrando che laddove si mettono in gioco armi diverse, curiosità, abnegazione, perseveranza, voglia di sperimentare, ecco che nascono progetti che fanno la differenza e riescono a migliorare la qualità della vita, anche ad essere attrattive verso nuovi cittadini e a produrre ricchezza economica e umana.

Nell’evoluzione dell’associazione si passa da federazione di piccoli Comuni (come i fondatori) a soggetto capace di attrarre anche capoluoghi di provincia e Città metropolitane, con le enormi difficoltà e contraddizioni che questo comporta: in che modo lo spirito dei “Comuni virtuosi” permea contesti come Bergamo o Parma, Bologna o Reggio Emilia?
MB La scelta di coinvolgere la città capoluogo di provincia, presa dal direttivo dell’associazione, inevitabilmente è stata discussa e per certi versi può essere considerata anche problematica. Nei piccoli Comuni, c’è più possibilità di essere lineari e coerenti, rispetto a quanto accade quando si amministrano Trento, Bergamo, Parma, Reggio Emilia o Bologna, le cinque città che fanno parte dell’associazione. Con queste amministrazioni, si entra in una dialettica, in cui diventa fondamentale tenere a mente l’obiettivo prioritario: dimostrare che è possibile cambiare il paradigma delle società attraverso le scelte locali; man mano che si cresce, è difficile trovare una assoluta linearità, l’assenza di contraddizioni, ma sappiamo che un singolo progetto realizzato in un Comune grande ha un impatto nell’immaginario collettivo, può diventare un punto di partenza per molte più amministrazioni e contesti, creare consenso e cultura. Faccio due esempi: quando Parma, prima città capoluogo di provincia, introdusse nel 2012 il porta a porta spinto nel ciclo dei rifiuti, arrivando quasi immediatamente intorno all’80% di raccolta differenziata, questo ha dato spinte enormi. L’adozione di “Città 30” a Bologna sta producendo un cambiamento importante in materia di mobilità, a livello culturale, e nei prossimi anni tante comunità più o meno grandi seguiranno un modello che sta dimostrando efficacia, migliorando la sicurezza in primis per pedoni e ciclisti e riducendo le emissioni. È vero che si rischia di entrare in contraddizione con le linee guida del Manifesto e dello statuto, ma se quelle città portano avanti progetti che diventano modelli, questo allargamento a mio avviso funziona.

Il premio è da vent’anni uno dei punti di forza dell’Associazione. Com’è cambiato e perché ha ancora senso raccontare e promuovere le “buone pratiche”?
MB Il Premio ha un valore inestimabile, perché ogni anno ci permette di entrare in contatto con decine di esperienze all’avanguardia, innovative, capaci anche su singole piccole progettualità di produrre un cambiamento nella realtà in cui operano. Da quell’enorme giacimento di buone pratiche, a noi il compito ogni anno di far emergere le più coerenti e capaci di far partecipare le comunità locali, offrendo loro una cassa di risonanza. Ci rendiamo conto che sono sempre di più Comuni e comunità che possono così rilanciare e replicare azioni che rischiano altrimenti di restare confinate in territori isolati e di risultare efficaci solo lì.

L’Associazione dei Comuni virtuosi ha lavorato molto sul tema dei rifiuti, dalle osservazioni all’accordo tra Associazione nazionale Comuni italiani e Consorzio nazionale imballaggi (Anci-Conai) alla recente campagna per un sistema di deposito cauzionale anche in Italia. Perché è stato e resta un ambito tanto sentito?

MB Il tema dei rifiuti intercetta in modo trasversale tutte le comunità italiane, virtuose o meno. Ha a che fare con l’impronta ecologica individuale e collettiva e con le scelte industriali che si danno regioni e Comuni nella gestione dell’igiene urbana. Per i Comuni, una gestione più efficiente permette anche di risparmiare e in ottica di economia circolare significa evitare lo spreco di circa otto miliardi di contenitori per bevande che non vengono riciclati ma smaltiti in discariche ed inceneritori. In Italia siamo alla prese con grandissime disparità di risultati, trasversalmente alle singole aree geografiche, che andrebbero aggredite e risolte da una pianificazione nazionale radicalmente diversa da quella oggi generalmente accettata. A distanza di oltre dieci anni da un’iniziativa che mirava a migliorare la copertura dei costi sostenuti dai Comuni per la raccolta degli imballaggi all’interno dell’accordo quadro Anci-Conai, siamo tornati nel 2022 sul tema con la campagna “A Buon Rendere-molto più di un vuoto” per l’introduzione di un Sistema di deposito cauzionale per contenitori monouso per bevande in plastica, alluminio e vetro. È già in vigore in 17 Paesi Ue e permette di arrivare a intercettare oltre il 90% degli imballaggi, garantendo anche una qualità impossibile da raggiungere nelle raccolte domiciliari. Meno imballaggi da gestire e una drastica riduzione dei contenitori per bevande dispersi nell’ambiente o smaltiti con l’indifferenziato significa per gli enti locali meno costi.

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