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Gli Stati che non vogliono giocare con le regole delle imprese. Il caso dell’Ecuador

© Tni

Gli arbitrati internazionali vorrebbero sulla carta dirimere le dispute tra Paesi, imprese o investitori stranieri ricorrendo a un soggetto terzo esterno invece che a un giudice ordinario. Un processo regolato attraverso clausole inserite in contratti e trattati che spesso agevola i colossi a scapito della collettività. A fine aprile un referendum a Quito ne ha confermato il divieto. Non è l’unico Stato coinvolto

Indipendenti e neutrali: così si definiscono le corti di arbitrato internazionale. Vero e proprio sistema di giustizia parallela, l’arbitrato sta prendendo sempre più spazio nella risoluzione delle controversie tra imprese private e Stati nazionali. Ma è anche una procedura sempre più criticata. Gli ultimi a non volerne proprio sapere sono Stati gli ecuadoriani, che a fine aprile hanno ribadito di non avere alcuna intenzione di tornare ad accettarne le regole. 

Il presidente Daniel Noboa aveva infatti chiesto ai suoi cittadini che cosa ne pensassero della possibilità di adottare nuovamente l’arbitrato come strumento per la risoluzione di controversie internazionali. L’occasione era data da un referendum convocato per sondare l’opinione popolare su una serie di riforme per affrontare la grave crisi di sicurezza che sta attraversando il Paese, come per esempio se schierare i militari nelle operazioni di polizia. Nel mezzo, però, c’erano anche quesiti che avevano poco a che vedere con la guerra al narcotraffico. Tra cui proprio quello sull’arbitrato. 

L’arbitrato internazionale è un sistema che, per risolvere eventuali dispute fra Paesi, imprese o investitori stranieri, ricorre a un arbitro terzo esterno invece che a un giudice ordinario. È un processo regolato attraverso delle clausole inserite in contratti, convegni e trattati internazionali, ma dal 2008 la Costituzione ecuadoriana proibisce alcune di queste pratiche. L’articolo 422 vieta infatti di “celebrare trattati o strumenti internazionali in cui lo Stato ecuadoriano ceda giurisdizione sovrana a istanze di arbitrato internazionale, o controversie contrattuali di indole commerciale, fra lo Stato e le persone naturali o giuridiche private”. 

Vianna Maino è una esperta in investimenti stranieri della Corporazione per la promozione delle esportazioni e investimenti (Corpei), agenzia privata che lavora per migliorare la posizione delle imprese ecuadoriane sui mercati internazionali. Per lei, il vantaggio dell’arbitrato starebbe in una maggiore garanzia di specializzazione e neutralità degli arbitri. “È un esperto internazionale che conosce il tema e non ha alcuna inclinazione a favore o contro. Non è un come un giudice ordinario, che può avere una posizione predefinita nella risoluzione di casi simili, o che può non essere così irreprensibile, come purtroppo accade in molti sistemi giudiziari”, spiega ad Altreconomia. 

Ma queste argomentazioni non hanno convinto gli ecuadoriani, che, con oltre il 65% di voti contrari, hanno pensato fosse meglio gestire le cose in casa propria. “L’arbitrato internazionale ci farà giocare con le regole e con le persone scelte dalle imprese”, spiegava infatti appena fuori dal seggio Mihail, medico di 35 anni. 

A pesare sulla decisione di molti è stata la disputa legale ancora in corso con l’impresa petrolifera Texaco, che ha operato nell’Amazzonia ecuadoriana dal 1964 al 1990 e che è stata acquisita dalla compagnia energetica Chevron nel 2001. A giugno 2018 la Corte costituzionale dell’Ecuador aveva confermato la condanna a Chevron per 9,5 milioni di dollari come risarcimento per le comunità danneggiate dall’attività petrolifera. Secondo l’Unione delle vittime di Texaco (Udapt), l’impresa avrebbe rilasciato nell’ambiente 64 miliardi di litri di acqua tossica e più di 600mila barili di petrolio. Udapt rappresenta le sei popolazioni indigene e le circa 80 comunità che vivono nell’area compromessa dagli sversamenti. Al contrario, Chevron sostiene invece che Texaco avrebbe adempiuto ai suoi doveri di ripristino ambientale e che i danni sarebbero di responsabilità dell’impresa pubblica di idrocarburi nazionale. 

La vicenda è però oggi ancora sospesa. Prima che venisse emesso il giudizio di primo grado, Chevron ha presentato tre cause di arbitrato contro l’Ecuador, di cui due attraverso una procedura conosciuta come Investors State dispute settlements (Isds). Dopo la sentenza della Corte costituzionale, l’Ecuador è stato così condannato dalla Corte permanente dell’arbitrato dell’Aia a risarcire i danni derivanti dalla sentenza delle corti nazionali. La Corte dell’Aia ha infatti ritenuto il giudizio fraudolento in quanto l’Ecuador nel 1998 aveva liberato Texaco da ogni ulteriore obbligo contrattuale. Gli arbitri internazionali hanno inoltre sostenuto che i tribunali ecuadoriani non avessero approfondito a sufficienza le accuse di collusione tra il giudice di primo grado e i legali delle vittime. “Nel lodo, gli arbitri dispongono che lo Stato debba annullare la sentenza del caso Lago Agrio -spiega Pablo Fajardo, avvocato di Udapt-, ditemi voi dove esiste una legge che permette al potere esecutivo di interferire con la funzione giudiziaria”. Secondo Fajardo, lo Stato ecuadoriano non potrà comunque pagare proprio grazie all’articolo 422 della Costituzione. 

Al centro della campagna referendaria sono finiti quindi gli Isds. Secondo il report “Parallel Justice” dell’istituto di ricerca internazionale Transnational institute (Tni), si tratta di un vero e proprio meccanismo di giustizia parallela regolato da circa 300 Trattati di libero commercio e 2.500 trattati per la protezione degli investimenti. Le clausole per cui un’impresa può ricorrere a un Isds sono normalmente incluse nei trattati bilaterali di investimento, ovvero quegli accordi che stabiliscono i termini e le condizioni per gli investimenti privati da parte di cittadini e aziende di uno Stato nel territorio di un altro. La Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo sviluppo (Unctad) è a conoscenza di 1.332 casi di Isds, di cui 60 solo nel 2023. Eppure, è la stessa Unctad ad avvertire che, dato che diversi arbitrati vengono gestiti in maniera segreta, il numero è probabilmente molto più alto. 

Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani e l’ambiente David Boyd, che ha da poco concluso il proprio mandato, ha però definito gli Isds come “un disastro per la prospettiva dell’azione climatica, ambientale e di protezione dei diritti umani”. In un report dell’anno scorso, Boyd ha documentato come gli investitori stranieri avessero richiesto cifre esorbitanti agli Stati che implementavano norme stringenti per la tutela dell’ambiente. Il numero di cause intentate contro chi rafforza le proprie legislazioni sarebbe schizzato alle stelle, da 12 prima del 2000 a 126 nel periodo 2011-2021. A distinguersi in queste azioni sono state le industrie fossili e minerarie, che avrebbero già ottenuto più di cento miliardi di dollari come risarcimenti. Il report solleva infine preoccupazioni sull’imparzialità del sistema, argomentando che le decisioni vengono prese da arbitri che, in molti casi, collaborano con gli stessi studi legali che rappresentano le imprese.

Delle dispute documentate da Unctad, fino a oggi, 361 si sono risolte con una decisione favorevole per gli Stati, 268 hanno dato ragione agli investitori, mentre 177 hanno raggiunto un patteggiamento. Ma Luciana Ghiotto, ricercatrice del Transnational institute, sottolinea che questi numeri nascondono una realtà ben diversa. “Ci sono molti casi in cui si dà ragione allo Stato ma in ogni caso lo si condanna a pagare le spese del costo dell’arbitrato -spiega ad Altreconomia-. Inoltre, uno Stato non può mai agire e accusare un investitore. È solamente un meccanismo unilaterale”.

Con gli Isds l’Ecuador ha avuto finora una relazione tormentata. Sempre secondo il Transnational institute, è stato il quinto Paese con più cause di tutta l’America Latina. Ventinove in totale, di cui 14 si sono risolte a favore delle imprese o con un patteggiamento. Tre delle otto domande ancora pendenti riguardano quasi dieci miliardi di dollari, l’equivalente del budget in salute ed educazione del 2024, secondo l’organizzazione ambientalista ecuadoriana Acción Ecologica. 

L’esperta in investimenti internazionali Vianna Maino però è in disaccordo con chi condanna l’intero sistema dell’arbitrato: “quello che ci dovrebbe preoccupare è rispettare le norme e non infrangere gli impegni, dando sicurezza giuridica ai contratti. Se lo facciamo, e ci portano in sede arbitrale, non ci dovremmo preoccupare”. 

Per lei è infatti un errore riferirsi solo agli Isds quando si parla di arbitrato internazionale e quella del referendum era soprattutto un’occasione per chiarire un articolo con una formulazione confusa, mandando un messaggio agli imprenditori internazionali. “Un investitore richiede sicurezza giuridica e politica. E uno strumento per darla è l’arbitrato internazionale”, conclude Maino. 

Anche se la maggior parte dei casi di Isds riguardano Paesi a basso e medio reddito, questi stanno comunque creando problemi anche alle nazioni più ricche. L’Italia, per esempio, è stata citata in giudizio almeno 14 volte tra il 2014 e il 2023 e, nel 2022, è stata condannata a pagare 190 milioni di euro (più interessi) alla società britannica Rockhopper per non aver potuto sfruttare il giacimento petrolifero “Ombrina mare” di fronte alle coste dell’Abruzzo. Oltre che alla sentenza in favore della società britannica, contro Roma pendono anche cause della Banca commerciale di Amburgo, del produttore di pannelli fotovoltaici Suntech e del gigante francese della gestione di acque, energia e rifiuti, Veolia. Tutte basate sull’Energy charter treaty, un trattato firmato nel 1994 per regolare la cooperazione energetica. Roma si è ritirata dal 2016 ma le clausole relative agli investimenti realizzati prima di quella data avranno tempo fino al 2036 per essere sollevate.

L’Italia non sembra comunque essere isolata nella sua decisione di levare l’ancora. “L’India ha denunciato tutti i suoi trattati di investimento. Il Sudafrica ha promulgato una legge che proibisce l’arbitrato. Nuova Zelanda e Australia non firmano più trattati con Isds”, dice Ghiotto. Recentemente, anche il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue si sono espressi per ritirarsi dall’Energy treaty. Perfino Stati Uniti e Canada, nel rinnovato accordo di libero scambio del 2020, hanno escluso ogni clausola che contemplasse gli Isds. “I Paesi hanno iniziato a prendere l’iniziativa per riformare i propri trattati -conclude Ghiotto- purtroppo però non stiamo vedendo una discussione globale che prenda in considerazione le critiche al sistema”. 

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