Altre Economie
Genova è una città contadina
Nel comune della Lanterna lavorano oltre 540 aziende agricole: tengono vivo il territorio. Il legame con l’economia solidale —
Genova è una città agricola, e non solo un grande porto turistico e commerciale. Chi, partendo dal centro storico, s’è arrampicato almeno una volta a piedi, salendo per i carruggi, sa che basta camminare un quarto d’ora verso Nord, partendo da palazzo Ducale, e si è già in campagna.
Una collina aspra, com’è quasi ovunque nell’entroterra ligure: la “Genova agricola” è fatta di fazzoletti di terra e terrazzamenti, ed “è stata costruita in centinaia d’anni, dagli unici che si sono mostrati in grado di manutenere questo territorio, cioè i contadini” racconta Dario Patrone. Siamo seduti sul suo Ape, e saliamo da Voltri verso le alture della Vesima: è la sua collina, un osservatorio privilegiato sulla campagna del Comune di Genova, quindici chilometri ad Ovest del Porto Antico. “Qui una volta era tutto un pascolo. Quella montagna -spiega, indicando alla nostra destra- ha alimentato migliaia di capi. Negli ultimi anni è stata invasa da arbusti, foreste che crescono disordinate”. Sono gli stessi alberi che, piegati e poi troncati dal vento, cadono ad ostruire i mille solchi che da quassù scendono a mare.
Due abbracciano anche l’azienda agricola di Dario, un ettaro di “fasce” -come qua chiamano i terrazzamenti- coltivato ad ortaggi e verdure, con un dislivello di un centinaio di metri dall’ultima in basso alla più alta: al centro c’è la casa.
Quest’azienda agricola è attiva da gennaio 2011, e quindi non risulta tra le 548 del territorio del Comune di Genova secondo il Censimento generale dell’agricoltura realizzato, realizzato nell’autunno del 2010 dall’Istat: il 96%, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica, sono piccole aziende a conduzione famigliare, e sono distribuite in modo puntiforme lungo tutto l’arco di 30 chilometri in cui si sviluppa la città. Quelle censite erano, comunque, meno della metà rispetto al 2010, e anche la superficie agricola utilizzata (Sau) è in picchiata, essendo passata da 4.164 ettari nel 1982 ai 1.868 di tre anni fa.
Per questo la scelta di Dario, che ha 34 anni, una moglie (Annalisa) e un bimbo di pochi mesi (Giovanni Battista, detto “Bacicin”), rappresenta un’inversione di tendenza: lui è tra i pochi che continua a lavorare la collina genovese, perché con l’aiuto del fratello ha recuperato le sue fasce, una per una: “Da bambino non sapevo nemmeno che forma avessero queste terrazze. Fino ad otto anni fa qui c’era un roveto altissimo” racconta. Si frena così l’avanzata del bosco, la cui superficie è quasi raddoppiata tra il 1982 e il 2010, passando da 3.688 a 6.733 ettari.
Dario ha visto mutare questo paesaggio dalla fine degli anni Novanta, quand’è salito alla Vesima ed ha iniziato a curare un orto sulla terra che era stata dei nonni mentre frequentava i corsi di Matematica. Allora andava a Genova a studiare, oggi quando scende va a Sestri (sempre in Comune di Genova) a consegnare i prodotti biologici che sono distribuiti all’interno di Manifattura Etica (MEt, www.manifatturaetica.it), l’emporio di prodotti biologici freschi e non solo gestito dalla cooperativa Fair, all’interno della ex Manifattura Tabacchi, a due passi da Fincantieri.
MEt, aperto da settembre 2011 è -spiega Deborah Lucchetti, presidente di Fair– “un progetto nato per puntare sull’agricoltura locale, che ha dovuto fin da subito fare i conti con la realtà: il territorio ha abdicato alla propria funzione agricola, lasciando spazio alla monocoltura, ad esempio nel settore florovivaistico, oppure alle colture Dop, quelle che rappresentano una vetrina del territorio, come il basilico o l’olio di oliva taggiasca. Non c’è un’agricoltura quotidiana, ed è con questo che si scontrano quei cittadini che chiedono di poter consumare ogni giorno prodotti biologici e locali”.
Al MEt ogni settimana vengono distribuite 30 cassette di verdure e ortaggi della Vesima, ma il sogno di Dario e dei Contadini della Vesima (un’associazione informale, che riunisce altre due realtà agricole) è che tutte la loro valle possa tornare a produrre: “È l’ultima interamente rurale della costa genovese” racconta mentre camminiamo lungo i sentieri intorno a casa sua, per scoprire, oltre un crinale, un’area completamente abbandonata: “Il nostro obiettivo è quello di vedere la Vesima abitata da famiglie contadine.
E questo dovrebbe essere un obiettivo di tutti i genovesi, per poter mangiare verdure e ortaggi locali”. Una volta a settimana, i Contadini della Vesima scendono a mare, per un piccolo mercatino che si tiene il sabato: chi vuole, può “prenotare” la propria cassetta, che contiene sempre ortaggi e verdura freschi, ma anche passata di pomodoro, uova (“per i più veloci”), miele, sciroppo di fiori di sambuco, di rosa, di amearene. Ogni settimana circa 400 genovesi ricevono nella propria casella di posta elettronica il “buletìn da Vêzima” (richiedibile a contadini@lavesima.it), un notiziario di cui Dario è caporedattore che racconta la vita della piccola comunità agricola della Vesima, e riflette sul futuro della valle e dell’agricoltura a Genova: a parte casi isolati, come quello di Dario e della sua famiglia (la casa in cui vive venne acquistata dai bisnonni, nel primo Novecento, quando la vista mare non alzava il prezzo della terra), tutta la Vesima è infatti di un unico proprietario, che da trent’anni preferisce non vendere né affittare le 25 coloniche e la terra.
Ecco perché “il nodo da sciogliere perché Genova torni davvero una città agricola -secondo Dario- è l’accesso alla terra: un contadino giovane, come me, è visto come un marziano in questa città. E a chi avanza la proposta di un mercato contadino, io dico che ciò di cui abbiamo bisogno è la terra, e poi pietre per i muri a secco, e interventi per il contenimento dei cinghiali”.
Anche perché due mercatini settimanali del biologico, a Genova, già ci sono, e sono quelli promossi dall’Associazione Liguria biologica (www.liguriabiologica.it), di cui è presidente Marina Consiglieri. Associa una quarantina di produttori, 16 dei quali in Provincia di Genova. Solo un paio nel territorio comunale: “L’agricoltura in questo territorio è faticosa. C’è, necessariamente, molto lavoro manuale: nella ‘fasce’ non entrano i trattori. Produrre ortaggi e verdure è quasi un lusso” mi spiega mentre ci arrampichiamo tra le montagne dietro Pra’, in una valle stretta da cui dovrebbe arrivare tutto il famoso “basilico di Pra’”, quello perfetto per il pesto.
Marina e il fratello Angelo Consiglieri, agronomo, gestiscono un’azienda agricola che produce miele (www.apicolturaconsiglieri.it) ma anche verdure e ortaggi, che vengono venduti solo attraverso la rete dei gruppi d’acquisto solidali e nei due mercatini settimanali promossi a Genova.
L’azienda di Marina e Angelo ha sede in Valfontanabuona, ma da qualche anno ha acquistato anche una proprietà di 22 ettari, sotto Monte Pennello e sopra Pra’, nel punto più stretto della Liguria, che qui è larga appena otto chilometri. “Qui dieci anni fa era tutto abbandonato. La colonica all’interno della proprietà mostra che qua si è sempre vissuto e coltivato: abbiamo testimonianze della fine dell’Ottocento, quando quest’area era adibita a orti a sostegno di un vicino convento di monache -spiega Angelo-. Oggi, il Comune vorrebbe riconoscere l’interesse naturalistico dell’area, e questo potrebbe impedire qualsiasi intervento, anche sulle strutture al servizio dell’azienda agricola. Credo, però, che il Comune debba vigilare perché in quest’area resti l’uomo, e non il lupo”.
Un dipendente dell’azienda agricola sta preparando l’orto invernale: cavoli, bietole, cipolle, patate. “È quasi un lusso, lavorare quassù”. Anche perché nessuno riconosce il valore di un’agricoltura che presidia il territorio, e lo tiene pulito.
Marina Consiglieri tiene anche corsi di apicoltura. Dopo averli seguiti, due giovani nell’entroterra di Pra’ stanno iniziando attività agricole imprenditoriali. Scegliendo il metodo biologico. Nella valle esiste (ancora) una Unione agricole genovese, che è una cooperativa di mutua assistenza. Anche se nessuno fa “bio”, restano agricoltori.
Camilla Traldi, dottoranda in Geografia storica per la valorizzazione del patrimonio storico ambientale all’Università di Genova, per la tesi di laurea ha raccolto testimonianze tra gli agricoltori della Val Polcevera, secondo i quali fino al dopoguerra la valle era un’area di intensa produzione orticola e frutticola. Un documento del 1983, a cura del Consorzio intercomunale per l’esercizio delle deleghe in agricoltura, foreste e difesa del suolo, “L’agricoltura nella città di Genova e negli altri Comuni del Consorzio”, elencava i settori produttivi presenti nel territorio comunale: oltre all’orticoltura specializzata del ponente, la produzione di basilico, i vigneti di Coronata e della Val Polcevera, e gli allevamenti bovini (con 1.338 capi e oltre 50 quintali di latte conferito ogni giorno), gli allevamenti ovini e caprini, la produzione e commercializzazione di fiori in serra nel levante cittadino, a Sant’Ilario e Nervi.
Oggi, però, a Genova non si parla più di agricoltura ma di “presidio ambientale”. Un concetto ribadito nel Piano urbanistico comunale in corso di elaborazione. Per Dario Patrone, Marina Consiglieri, Deborah Lucchetti, Camilla Traldi e per tutto il Tavolo agricoltura di Istruzioni per il futuro (If, istruzioniperilfuturo.org), la Rete ligure per l’altraeconomia e gli stili di vita responsabili (riunisce 40 organizzazioni liguri fra gruppi di acquisto solidale, associazioni ambientaliste, di consumatori, di finanza etica, cooperative del commercio equo e solidale, produttori agricoli biologici, comunità, associazioni di promozione sociale e difesa dei diritti umani), si tratta di una “non risposta”, che potrebbe anzi aggravare il problema di accesso alla terra.
Dario mi spiega perché: ha letto il contratto tra il Comune di Genova e suo fratello, che ha acquistato da una coppia genovese un terreno di 4mila metri quadrati e il relativo permesso a costruirci sopra una casa di circa 90 metri quadrati, a ridosso della proprietà di famiglia. “Secondo quel ‘contratto’, per presidiare è sufficiente falciare il terreno un paio di volte l’anno. E poi, mi chiedo, chi verrà quassù a controllare” racconta Dario. Definisce la scelta del fratello una contraddizione rispetto al suo impegno contro le villette in campagna, ma ciò che è successo appare -in realtà- una conferma rispetto a quanto denuncia la rete di Istruzioni per il futuro: quei 4mila metri, con il permesso a costruire, il fratello di Dario li ha pagati 130mila euro. Uno sproposito, una cifra che un contadino o un imprenditore agricolo non potrebbero mai permettersi di pagare. “Alcuni proprietari dei terreni vicini al mio erano disponibili a cedere alla mia azienda le loro piccole proprietà -racconta Dario-, ma oggi non sono più disposti a vendere: attendono che finisca il dibattito del Puc”.
“Il Comune ha tracciato una ‘linea verde’ a tavolino, oltre la quale non sarebbe possibile costruire che per realizzare questi ‘presidi agricoli’. Il rischio, però, è che si vadano a costruire solo villette sparse -racconta Angelo Consiglieri-, mentre l’attività agricola è una cosa ‘oggettiva’: dev’esserci terra, strutture, ci dev’essere un partita Iva e un bilancio”. Per questo Istruzioni per il futuro chiede di limitare la possibilità di edificare alle sole attività agricole produttive.
L’assessore all’Urbanistica e vicesindaco della città, Stefano Bernini, minimizza: a Genova, negli ultimi dieci anni, sarebbero state edificate solo 81 case su terreni agricoli. “Ciò dimostra, però, che è impossibile immaginare di ‘presidiare’ il territorio -conclude Dario-. L’indice di edificabilità -aggiunge serafico- impedisce l’accesso alla terra. E una terra congelata è vocata ad essere abbandonata”. —