Diritti / Intervista
Federico Mastrogiovanni. I migranti e l’idea di patria
Nel suo ultimo libro, “Aquí acaba la patria”, il giornalista italiano che vive in Messico riflette su come i media raccontano i fenomeni migratori, denunciando contraddizioni e ipocrisie
Federico Mastrogiovanni è un giornalista, scrittore e traduttore italiano, che da oltre dieci anni vive e lavora in Messico. Dopo aver pubblicato nel 2014 un libro che racconta la sparizione forzata nel Paese come strategia del terrore (“Ni vivos ni muertos”, uscito in Italia con lo stesso titolo nel 2015 per DeriveApprodi), ha dedicato anni di lavoro e riflessione al lavoro successivo: “Aquí acaba la patria”, uscito a fine 2021 in spagnolo per l’editore Fondo de cultura económica.
Il volume è stato selezionato tra i cinque finalisti del premio Rodolfo Walsh per la miglior opera non-fiction in lingua spagnola che si occupa di tema criminale, che verrà assegnato a luglio 2022 a Gijón in Spagna durante la Semana negra, festival letterario nato nel 1988 su iniziativa di Paco Ignacio Taibo II. Il libro di Mastrogiovanni, infatti, a partire da un contesto chiave -l’istmo centroamericano, il Messico che deve attraversare chiunque tenti di entrare negli Stati Uniti- affronta la questione emigrazione in maniera assolutamente anti-retorica, aprendo a riflessioni inedite sull’idea di patria e di costruzione dell’identità e sul modo in cui i giornalisti affrontano il tema, ormai un genere a sé nella professione.
Perché in un libro che racconta le migrazioni tra Tapachula e Tijuana finisci col parlare di due emigranti corsi nel Sud del Messico all’inizio dell’Ottocento?
FM Perché la migrazione è questo, una serie di spostamenti dei quali in realtà sai solo il punto di partenza, ma non sai mai dove realmente ti portano. Le storie di emigrazione sono assurde, vicende in cui succede sempre di tutto e quasi mai quello che i protagonisti si aspettavano che accadesse. Penso a me stesso: credevo di restare sei mesi in Messico, sono qui da 13 anni. Durante la lavorazione del libro, a un certo punto, proprio a partire dalla vicenda dei due fratelli corsi -Francisco e Pablo Tomasini- partiti da Olmeta per il Chiapas, ho deciso che avrei seguito il più possibile questa indeterminatezza: se una delle storie che incrociavo mi portava da un’altra parte, sarei andato -almeno concettualmente- dove mi stava portando. Questo significa rinunciare all’idea di seguire il corso della mia interpretazione della storia o almeno non del tutto.
Una scelta metodologica, quella di intraprendere questa derivazioni, frutto di associazioni libere di idee. Mi piaceva questo elemento, che comporta il cedere leggermente sulla tendenza -che abbiamo noi giornalisti, nella non finzione- di stabilire in maniera rigida la dinamica del viaggio. In realtà, ogni cammino si costruisce facendolo.
Nel libro unisci tanti puntini del tuo giornalismo degli ultimi dieci anni. Perché è importante, per capire “dove finisce la patria”, portare il lettore ad Haiti, dopo il terremoto del 2010?
FM Tra i migranti che arrivano nel Sud del Messico ci sono tanti haitiani. Sento che in relazione ad Haiti, dove sono stato in occasione del terremoto, ci sono tante cose che non sono state dette o almeno non nel modo in cui lo avrei fatto io. È rimasta inedita, ad esempio, la narrazione del disastro vista dal basso, tra la gente, osservando anche aspetti ironici. La mia intenzione, quindi, è quella di recuperare queste storie, perché io penso che nella narrazione anche solenne delle tragedie ci sono tanti aspetti che non vengono considerati. Credo che l’ironia, ad esempio, sia un elemento importante, ma per comprenderla ha bisogno della giusta distanza, che è data dal tempo.
A Tapachula, in Chiapas, ti muovi tra ristoranti cinesi e bancarelle di cibo africano: che cosa racconta, questo, di migrazioni e costruzione di identità?
FM Voglio far emergere l’aspetto dell’incontro. Perché l’emigrazione non è soltanto il transito o il viaggio, ma anche l’incontro con l’altro. Ed è importante chiedersi “come si risolve?”. A monte c’è una preoccupazione, che a mio avviso è politica, perché quando noi giornalisti saliamo sul carro della retorica parliamo di migranti e di ingiustizie, di come si debba accogliere, ma spesso ci dimentichiamo la difficoltà dell’incontro con l’altro. Tutta questa incomprensione è parte del problema, spesso bypassato, anche a sinistra, dove paradossalmente trovi tanti che non convivono con i problemi dell’incontro e dell’interculturalità ma dicono a tutti quando si debba essere buoni e accoglienti. L’incontro genera sempre difficoltà, in che cosa consiste questa cosa che si chiama convivenza, integrazione? Quali conseguenze genera? Ed entra in campo così questa parte della storia, dove racconto come Tapachula sia una città cinese, che non ha memoria di questo.
“Le carovane sono sostenute da persone per bene, che aiutano. I giornalisti vivono in un mondo dicotomico in cui o stai con i migranti o stai con Donald Trump”
A Tijuana e lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti racconti invece dei tanti che da Nord attraversano il confine per divertirsi o per accedere a cure mediche a basso costo: che cosa vuole rappresentare per te questa frontiera aperta da un solo lato?
FM Quelli che descrivo sono migranti di altro tipo, perché volevo raccontare aspetti non noti della frontiera Nord. Non credo però sia giusto descriverla come una frontiera aperta da un solo lato, però: perché la frontiera è sempre porosa. Chiusa sì, ma pronta ad aprirsi per tutti, dietro compenso. Le storie degli americani che entrano in Messico per visite mediche o per feste pacchiane low cost offrono una visione un po’ deforme di quella società che siamo abituati a considerare dominante, perché racconta che anche lì ci sono tanti subalterni. I personaggi che vivono questi attraversamenti al contrario sono dei paria nel loro Paese, non sono i vincenti di quella società, altrimenti non avrebbero bisogno di fare ciò che fanno. In Messico si dice che è meglio essere cabeza da raton que cola de leon (la testa di un topo piuttosto che la coda di un leone), spostandoti in un Paese dove riesci ad avere una forza, sia economica sia di riconoscimento che non avresti nel tuo.
Negli ultimi anni hanno conquistato spazio sui media le carovane migranti dal Centro America verso gli Usa. Nel tuo libro, affronti anche questo tema con spirito critico. Quali sono i limiti che si possono comprendere solo camminando con loro e vivendo negli accampamenti?
FM L’incoerenza e l’ipocrisia di determinati movimenti. Questo è possibile capirlo solo se fai davvero il giornalista e quindi sei testimone, perché spesso le narrazioni che vengono fatte di determinati episodi hanno invece un segno e un’agenda. Le carovane sono sostenute da persone per bene, che aiutano. I giornalisti vivono in un mondo dicotomico in cui o stai con i migranti o stai con Donald Trump, mentre il libro cerca di dimostrare l’estrema articolazione della realtà che non risponde a questa versione binaria. Il punto è uno solo. Le persone che emigrano hanno una priorità chiara: arrivare nel minor tempo possibile a destinazione. Questo significa attraversare la frontiera, in sicurezza. Se metti a confronto questa esigenza con quelle degli organizzatori delle carovane, vedi che non coincidono: perché non puoi obbligare i migranti a restare più tempo in un Paese, che è il Messico. Non puoi, di fatto, bloccarli, perché tu sai che non attraverseranno mai la frontiera, che non si può forzare né attraversare facendo una manifestazione, in gruppo. Se tu invece spingi i migranti a fare questo tipo di scelta, significa che i tuoi interessi -che sono l’acquisizione di capitale politico e la visibilità- prevalgono su quelli dei migranti. E se agisci così, a mio avviso, stai usando i migranti. Lo scrivo perché è corretto non avere una visione manichea della realtà.
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