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Essere docenti oggi. Sfide, resistenze e passioni nel contesto educativo del 2024
Due insegnanti raccontano la realtà della scuola di oggi, un corpo spesso soffocato dalla burocrazia e segnato da una precarietà lavorativa che rende difficile mantenere continuità e stabilità. Tra moduli, pratiche amministrative e norme sempre più complesse, il tempo per dedicarsi all’insegnamento e per coltivare un rapporto autentico con gli studenti sembra ridursi ogni giorno di più
Questo articolo raccoglie e amplia una serie di riflessioni introdotte da Alessandro Bernardini dell’associazione A Sud, arricchite dalle interviste anonime a due insegnanti, condotte da Daniele Mingardi del Gruppo educazione e scuola della stessa associazione. Le testimonianze, originariamente condivise nella mailing list interna dell’associazione, sono ora pubblicate, in modo anonimo con il consenso degli autori, per dare voce a una prospettiva spesso ignorata: quella della resistenza e del lavoro quotidiano di docenti che operano nella scuola pubblica italiana. (Nicola Villa)
Quelle che state per leggere non sono due interviste. Sono due storie parallele, che a un certo punto si inclinano una verso l’altra e prendono una forma comune: possono diventare ispirazione per un manifesto educativo.
Essere insegnante oggi, all’epoca dell’espansione del sovranismo europeo, delle guerre (non solo in Palestina e tra Ucraina e Russia), dei social network nel post pandemia, è complicato e (può essere) anche pericoloso. Non è un’esagerazione.
Oggi chi insegna rischia (in alcuni casi) di essere aggredito da soggetti poco inclini al riconoscimento della figura pedagogica. Soprattutto in Italia ci muoviamo tra le macerie della scuola pubblica, un declino che inizia inesorabile trent’anni fa, passando poi per l’autonomia scolastica nel 1997, fino a trasformarsi, nel nuovo millennio, attraversando il guado della “Buona scuola”, in un dedalo sempre più articolato di delegittimazione politica.
Si delinea così una sistematica opposizione alla cultura, alimentata da un populismo aggressivo di stampo leghista. Questa corrente si manifesta attraverso attacchi retorici contro una presunta élite intellettuale di sinistra e promuove una visione distorta della democrazia, basata sul principio ingannevole che le competenze specifiche siano superflue. Il risultato è un attacco coordinato alle istituzioni culturali ed educative, minando il valore della preparazione e della professionalità. Non è vero. Non tutti possono fare gli insegnanti.
Siamo forse a un punto di non ritorno, in cui il sapere scientifico, soprattutto sulla crisi climatica, è sempre più messo in discussione da una pletora di opinionisti che irridono il lavoro di esperti, ponendosi semplicemente come “alternativa” a quella che considerano la tesi dominante dei poteri forti o peggio un complotto guidato da lobbies progressiste.
Un quadro disarmante? Terribile? Sì, forse. Non solo e non proprio. Le parole di M. e di V. sono potenti, rabbiose, consapevoli e lasciano un senso di forza in chi le legge. La forza di persone preparate che amano il proprio lavoro, la forza dell’insegnante che tutti i giorni è in classe e che fa i conti con il suo ruolo di educatrice ed educatore. Un’insegnante che non ha nulla a che vedere con l’immaginario melenso cinematografico di “Dead poets society” (“L’attimo fuggente”).
Il lavoro di M. e di V. non è eroico, solitario e poetico. Non ci sono studenti che salgono sul banco per protestare contro l’allontanamento del professore. M. e V. lavorano nella scuola del ritorno al voto in condotta, delle prove Invalsi, nella “scuola del controllo e della conformità, in cui l’obiettivo è solo prendere buoni voti” come dice M. o in quella in cui si tende a valorizzare l’italianità e l’identità che è “qualcosa che cambia con il tempo e le persone che compongono una comunità”, come afferma V.
In Italia in questo momento, soprattutto da quando è in carica il Governo Meloni, si discute molto dei provvedimenti adottati nei confronti di alcuni insegnanti. Provvedimenti che, per molte persone, limitano la libertà di espressione, di critica e di insegnamento. M. e V. esprimono critiche e valutazioni di carattere politico e quindi sono passibili di sanzioni, essendo dipendenti pubblici. Si è deciso, quindi, di non menzionare né la scuola dove lavorano, né i loro nomi.
Come ti senti, a livello emotivo, come insegnante nel 2024, con l’inizio del nuovo anno scolastico?
V La prima parola che mi viene in mente è “persa”. Ogni anno c’è questa grossa interruzione estiva che sembra restituirci il tempo per leggere e riflettere, ma appena si torna in classe, sappiamo che sarà impossibile mantenere quel ritmo, perché il lavoro si fa sempre più denso di impegni burocratici e compiti aggiuntivi che non sono nemmeno adeguatamente retribuiti. La qualità del nostro lavoro, e quindi della vita, ne risente tantissimo. In particolare, quello che mi preoccupa di più è la mancanza di risorse umane. Iniziamo l’anno senza sapere chi sarà l’insegnante che completerà il nostro orario, il che rende difficile pianificare qualsiasi attività o impostare un approccio educativo. Mi sento come se stessi costruendo una casa partendo dal tetto, senza sapere se avrò mai le fondamenta necessarie per sostenerla.
M Anche io mi sento molto provato. Amo il mio lavoro, in particolare la continuità che ho con la mia classe, ma la fatica è enorme. Tra la burocrazia opprimente, la mancanza di comunicazione e una gestione del personale che sembra sempre in ritardo, l’anno scolastico inizia sempre con un senso di caos. Il problema maggiore è che il lavoro che facciamo richiede tantissima preparazione psicologica e competenze che non sono riconosciute o supportate dallo Stato. Ogni giorno entriamo in classe portando con noi non solo le nostre conoscenze disciplinari, ma anche tutto il carico emotivo necessario per gestire venti o più personalità diverse, ciascuna con le proprie esigenze e difficoltà. È un lavoro invisibile ma fondamentale, che nessun modulo burocratico potrà mai catturare.
V La precarietà è un tema dominante. Anche la mia classe rischia di essere smembrata ogni volta che qualcuno si ammala, e nessuno viene nominato il primo giorno. Questa incertezza impedisce la costruzione di un lavoro collettivo, e la continuità con l’approccio cooperativo che cerchiamo di mantenere rischia di essere compromessa da queste difficoltà logistiche. Come possiamo parlare di progetti educativi a lungo termine quando non sappiamo nemmeno se avremo una classe stabile per più di qualche settimana? I bambini hanno bisogno di punti di riferimento stabili, di relazioni che si costruiscono nel tempo, non di un continuo avvicendarsi di figure diverse che devono ogni volta ricominciare da capo.
M E poi, lo stipendio è un altro tasto dolente. Con due lauree e una specializzazione, mi trovo a guadagnare quanto un militare di leva, ma con responsabilità ben maggiori, e spesso mi trovo costretto a lavorare fuori dall’orario lavorativo senza compenso. Questo non riguarda solo me, ma tutti i colleghi. Passiamo ore a preparare lezioni, correggere compiti, partecipare a riunioni, gestire i rapporti con le famiglie, e tutto questo lavoro “invisibile” non viene né riconosciuto né retribuito. La società ci chiede di formare le nuove generazioni, ma poi non ci dà gli strumenti e il riconoscimento necessari per farlo al meglio.
V Un altro aspetto che mi pesa molto è la sensazione di solitudine professionale. Nonostante lavoriamo in un ambiente pieno di persone, spesso ci troviamo a dover affrontare sfide complesse senza un vero supporto sistemico. Mancano momenti strutturati di confronto tra colleghi, supervisione pedagogica, formazione continua di qualità. Ci si aspetta che siamo tuttologi: insegnanti, psicologi, mediatori culturali, esperti di tecnologia. Ma poi ci si dimentica di darci gli strumenti per esserlo davvero.
M Sì, e questo si riflette anche sul benessere degli studenti. Come possiamo trasmettere serenità e stabilità quando siamo noi stessi in una condizione di costante precarietà e stress? I ragazzi percepiscono queste tensioni, anche quando cerchiamo di nasconderle. Sarebbe necessario un ripensamento completo del sistema scolastico, che metta al centro non solo l’apprendimento formale, ma anche il benessere emotivo di chi la scuola la vive ogni giorno: studenti e insegnanti.
V Quello che mi fa andare avanti, nonostante tutto, è vedere i progressi dei bambini, quei momenti di scoperta e crescita che rendono tutto questo sforzo significativo. Ma non posso fare a meno di chiedermi quanto potremmo fare di più se avessimo le condizioni giuste per lavorare. La scuola pubblica ha un potenziale enorme come strumento di crescita e trasformazione sociale, ma sembra che questo potenziale venga sistematicamente sacrificato sull’altare del risparmio e dell’efficienza burocratica.
M Esatto. E forse la cosa più frustrante è che queste non sono problematiche nuove. Sono anni che gli insegnanti denunciano queste difficoltà, anni che si chiede una riforma seria del sistema scolastico, anni che si evidenzia come l’investimento nell’istruzione sia fondamentale per il futuro del paese. Ma sembra che le nostre voci si perdano nel vuoto, mentre ci si concentra su interventi superficiali che non affrontano i problemi strutturali. Come possiamo sperare in un cambiamento se non c’è nemmeno la volontà politica di ascoltare chi la scuola la vive ogni giorno?
Che cosa pensi delle nuove proposte del ministro Valditara, come la reintroduzione del voto numerico e l’utilizzo punitivo del voto in condotta?
V Mi sembrano delle semplificazioni di una realtà molto più complessa. Nel contesto multiculturale in cui lavoro, in cui convivono 19 diverse cittadinanze, trovo impossibile ridurre l’insegnamento a una “identità italiana” univoca. L’identità è qualcosa che cambia con il tempo e le persone che compongono una comunità. Queste proposte sembrano più degli spot politici, mentre la scuola dovrebbe essere un laboratorio di confronto e crescita, non un luogo dove si impone una visione rigida e superata. Il discorso del voto in condotta mi sembra altrettanto problematico: sanzionare non risolve niente. La disciplina va costruita nel dialogo, e se un bambino si comporta male, è una forma di comunicazione, non qualcosa da punire semplicemente con un brutto voto. La vera sfida è capire cosa c’è dietro certi comportamenti e lavorare sulle cause profonde.
M Concordo pienamente. Reprimere non porta a nessun apprendimento. Le neuroscienze dimostrano che si apprende solo attraverso il piacere e l’interesse, non la paura. Reintrodurre il voto numerico e il voto in condotta non aiuterà a formare cittadini liberi e critici, che è il nostro obiettivo. La scuola dovrebbe insegnare a convivere, a trovare soluzioni condivise, non a conformarsi passivamente. Se un ragazzo è bravo solo per paura di un brutto voto, allora come insegnanti abbiamo fallito. Dobbiamo invece stimolare la curiosità naturale, la voglia di scoprire e comprendere. Solo così potremo avere studenti realmente motivati e non solo superficialmente disciplinati.
V Aggiungo che proposte come queste ignorano completamente le realtà sociali di certi contesti. In quartieri difficili come il nostro (a Roma, ndr), molti bambini crescono in ambienti di violenza e illegalità. Il nostro compito non è punirli, ma educarli, offrendo un’alternativa. Non possiamo essere solo dei poliziotti che applicano sanzioni. Servono invece risorse per progetti di inclusione, attività extrascolastiche, supporto psicologico. Spesso dietro comportamenti problematici ci sono situazioni familiari complesse che richiedono un approccio sistemico, non punitivo.
M Esatto. Lo Stato dovrebbe investire nella scuola come istituzione educativa, per formare cittadini capaci di pensare criticamente e agire per il bene comune. Ma sembra che si punti invece su una scuola del controllo e della conformità, in cui l’obiettivo è solo prendere buoni voti. Il vero fallimento sta nel lasciare che le ingiustizie passino inosservate e che i giovani non imparino a dire no quando necessario. La valutazione dovrebbe essere uno strumento di crescita, non un’arma di ricatto. Dovremmo premiare il progresso, l’impegno, la capacità di collaborare, non solo la performance individuale.
V Queste nuove proposte non tengono conto della realtà del nostro mestiere, che è fatto di ascolto, comprensione e sviluppo della soggettività dei bambini. Non si può imporre una struttura rigida a un sistema educativo che deve invece essere flessibile e accogliente delle diversità. Ogni studente ha i suoi tempi e modi di apprendere, le sue difficoltà e potenzialità. Standardizzare tutto significa perdere di vista l’unicità di ciascuno. La scuola dovrebbe essere un luogo dove si coltivano talenti diversi, non dove si uniformano tutti allo stesso modello.
M La scuola dovrebbe formare individui critici e consapevoli, non obbedienti e spaventati. Bisogna rimettere al centro l’educazione come processo di crescita condiviso, dove l’autorità non è un bastone, ma una guida verso l’autonomia e la partecipazione attiva. Dovremmo insegnare ai ragazzi a ragionare con la propria testa, a fare domande, a mettere in discussione le cose. Solo così potranno diventare cittadini responsabili e attivi nella società. Il voto numerico rischia di spostare l’attenzione dal processo di apprendimento al risultato finale, alimentando competizione invece che collaborazione.
V E non dimentichiamoci che la scuola oggi deve preparare i giovani a un mondo in rapido cambiamento, dove le competenze più importanti saranno proprio quelle sociali ed emotive: la capacità di adattarsi, di lavorare in gruppo, di risolvere problemi in modo creativo. Un approccio basato su controllo e sanzioni va nella direzione opposta.
M Concludo dicendo che abbiamo bisogno di una scuola che educhi alla libertà e alla responsabilità, non all’obbedienza cieca. Una scuola che valorizzi le differenze invece di appiattirle, che stimoli il pensiero divergente invece di reprimerlo. Solo così potremo davvero aiutare i nostri studenti a diventare gli adulti consapevoli e responsabili di cui la società ha bisogno.
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