Altre Economie
Eretici e/o coerenti? – Ae 71
Essere attori di un’economia etica, in un mercato che va in tutt’altra direzione, è già, di per sé, un’impresa. Gli inizi, in genere, sono giustamente eroici. Poi ci si misura con la sostenibilità, in termini anche di fatturati, idee, costi…
Essere attori di un’economia etica, in un mercato che va in tutt’altra direzione, è già, di per sé, un’impresa. Gli inizi, in genere, sono giustamente eroici. Poi ci si misura con la sostenibilità, in termini anche di fatturati, idee, costi e ricavi.
Posti di lavoro, tutela degli investimenti, professionalità e concorrenza. Ma sono la trasparenza e la coerenza con cui si perseguono i fini per i quali si è nati che fanno la differenza, anche negli errori
“Leggo di Unipol e penso al commercio equo, alla finanza etica e a tutte le altre iniziative di economia alternativa”. Scriveva così Francesco Gesualdi nella sua rubrica “Idee eretiche” su Altreconomia di febbraio. Sollevava, Francuccio, il tema della crescita e del compromesso: “la voglia di crescere è la ragione più frequente che ci spinge ad abbandonare l’inflessibilità dei nostri principi”. Il sasso gettato è ripreso qui da Ugo Biggeri, che tra l’altro siede nel consiglio di amministrazione di Banca Etica, e da Giorgio Dal Fiume. Tutti e tre si conoscono bene (si sono trovati più volte fianco a fianco nelle stesse battaglie). Anche per questo è interessante il dibattito che ne scaturisce e che, speriamo, possa continuare al di là di queste pagine.
Tutti abbiamo a cuore di non svendere le ragioni che ci spingono a impegnarci per cambiare la realtà. È però vero che, nel campo aperto della vita quotidiana, non è facile individuare le scelte giuste. Spesso non si tratta di scendere a compromessi con gli ideali ma anzi di metterli in gioco meglio, tentando di rispondere alla sete di giustizia di tanti, oggi, e non solo nel futuro.
Sono domande queste che attraversano da sempre il commercio equo e la finanza etica in Italia, e non solo: domande con le quali siamo convinti sia utile confrontarsi, riconoscendoci compagni di viaggio. Eretici sì, ma non scomunicatori. (mi.gi.)
Caro Francuccio,
ho letto il tuo articolo sull’affare Unipol su Altreconomia di febbraio, e mi è rimasto in testa per alcuni giorni, perché lo condivido, ma soprattutto perché l’ho trovato stimolante per un’altra riflessione che ti sottopongo. Concludi il pezzo scrivendo che “Perseguendo la coerenza può anche arrivare la crescita, ma guai se per la crescita svendessimo i nostri valori”.
Sono perfettamente d’accordo, ma per me la domanda è: “come si misura la coerenza?”. Esistono anche altri parametri? Per me non è una domanda filosofica, ma molto concreta, che si intreccia con altri due “postulati” assai importanti: il cambiamento non violento e la partecipazione.
Se vogliamo che il cambiamento sia non violento occorre passare dal consenso della maggioranza, cosa niente affatto banale. Più il cambiamento deve essere forte maggiore deve essere la partecipazione e la responsabilità di tutti e soprattutto deve essere tale da permettere a tutti di sentirsi parte del cambiamento stesso. Nel nostro immaginario di società equa non possiamo certo pensare che alcuni siano più equi degli altri, vero?
Chi è più coerente? Un imprenditore che con fatica si interroga sul senso della propria azione economica sperimentando seriamente percorsi, magari blandi, di responsabilità di impresa, o il volontario che sceglie la sicurezza di un lavoro inutile o a volte negativo ed ogni tanto aiuta durante le iniziative di economia solidale o di una campagna di opinione?
Io non lo so, ma vedo che in un mondo che corre verso il baratro cantando, tutti i tentativi di cambiamento “sinceri” sono gocce preziose da non disperdere. Sono convinto che, come avviene negli ecosistemi naturali, la capacità di superare la crisi dipende anche dalla biodiversità di idee, esperienze, economie che riusciremo a mettere in campo. Credo che nel movimento abbiamo un ruolo importante di esploratori ed apripista di nuovi cammini di cambiamento, un ruolo di lampadieri per usare la bella espressione di Tom Benettollo, che secondo me dovremmo perseguire con l’intransigenza tollerante di chi sa distinguere la coerenza delle proprie scelte personali o associative, da perseguire con tenacia, dal giudizio sulle scelte di altri soggetti che possono e devono essere considerati compagni di viaggio e parte di un con-senso necessario al cambiamento.
Infatti come abbiamo bisogno di esploratori, di apripista e di lampadieri, abbiamo estremo bisogno anche di traduttori, di ponti, di con-viventi e cavalli di Troia che sappiano stare nella società che vogliamo cambiare e la sappiano avvicinare ed accompagnare verso un mondo capace di futuro.
Credo che sia anche nella capacità di costruire relazioni anche umane (così misconosciute in economia oggi) che avremo la possibilità di convincere tutti del cambiamento necessario. Mi sembra che la società complessa in cui ci troviamo renda veramente difficile trovare i parametri che ci consentano di dire se un percorso è dentro o fuori da una strategia per un mondo migliore.
C’è sicuramente bisogno di arrabbiarsi, di azioni di contrasto, di marcare le differenze, però, ad esempio, credo che sia giusto cercare di collaborare il più possibile con il movimento cooperativo, anche se pensiamo sia troppo grande e abbia perso alcuni valori importanti: non nascondiamo le critiche, ma non chiudiamo le porte. Come penso sia giusto cercare di portare il più possibile le idee del commercio equo e della finanza etica nelle case della gente, non per la crescita delle strutture giuridiche, ma per la diffusione delle critiche e delle proposte insite in tali iniziative e per perseguire il consenso e la partecipazione delle persone.
Certo, tra l’autoproduzione e l’affaire Unipol c’è una bella zona che non direi grigia, ma vorrei vedere colorata magari con uno di quei disegni in cui i bambini mescolano tutti i colori in un caos creativo. Una zona che non possiamo misurare solo in termini di crescita o degenerazioni verso il mercato, che vorrei misurare con il cuore e la passione di chi vi lavora, con il lento e irregolare, ma inesorabile, crescere delle buone idee.
È difficile e non mi riesce trovare il filo del disegno, vorrei poter usare come parametro la passione dei disegnatori collettivi, il fatto di far cose belle (nel senso estetico, ma anche virtuose). L’obiettivo allora non è avere un pennello più grande, ma fare un disegno più bello, più partecipato, dare compimento ad un intuizione in modo pieno ed interagente con il reale. Forse questa visione della coerenza rende anche più complicato fare chiarezza, ma a me sembra renda la lotta più umana, e più capace di farci arrivare tutti ad un altro mondo migliore possibile.
Ugo Biggeri, Centro SIeCI
Caro Ugo,
il dibattito che sollevi è al tempo stesso stimolante e necessario. Come sempre, dopo le enunciazioni di principio si pone un problema di misura perché la realtà è sempre più complessa della teoria. Per cominciare vorrei dire che non concepisco la coerenza come un precetto fine a se stesso, ma come uno strumento per fini superiori. Non una legge per giudicare i buoni e i cattivi, ma un comportamento, fermo nello spirito e flessibile nei modi, per fare crescere un mondo migliore.
La mia idea è ben rappresentata dal principio evangelico del sabato al servizio dell’uomo. In quest’ottica qualsiasi deroga può trovare la sua giustificazione, ma presuppone alcune condizioni di fondo. La prima è l’onestà verso l’esterno. A questo mondo possiamo fare qualsiasi compromesso, ma dobbiamo dichiararlo come tale per non confondere chi ci guarda ed evitare di sovvertire lentamente i valori.
La seconda è la sincerità verso noi stessi. Dobbiamo fare un profondo esame di coscienza per accertarci che non deviamo per ragioni di potere (prestigio, grandezza, ricchezza), ma per servire meglio i valori in cui crediamo. Garantita l’onestà e la sincerità si pone un problema di qualità delle scelte. Se l’obiettivo è fare strada ai valori, dobbiamo porre la massima attenzione affinché non si entri mai in rotta di collisione con essi. Mescolarsi ha senso se contagiamo positivamente, non se compromettiamo il contenuto del nostro messaggio. Dobbiamo avere chiaro che la gente si fa un’opinione sui nostri messaggi non dalle cose che diciamo, ma da ciò che facciamo e se ci alleiamo con chi ha comportamenti sostanzialmente opposti ai nostri valori, il nostro messaggio ne esce a pezzi. Dobbiamo esporci per illuminare, non per spengerci.
Naturalmente i ragionamenti che faccio partono dal presupposto che vogliamo giocare un ruolo di guida, non di pontieri. E questo è un altro aspetto su cui bisogna avere le idee chiare. Premesso che ogni funzione ha la sua legittimità, non si possono svolgere tutte contemporaneamente. Bisogna scegliere, sapendo che ogni ruolo pone responsabilità, potenzialità e limiti. Chi scende in campo per indicare come si fa economia equa, solidale e sostenibile deve tenere la barra dritta sui valori, non adattare le proprie scelte agli indici di gradimento del pubblico.
Chi propone strade alternative si assume il ruolo di guida. Pertanto deve rimanere fermo sui suoi principi in modo da rappresentare sempre un faro. Chi sta attorno guarda e decide cosa prendere, cosa lasciare e cosa riadattare in base alle sue convinzioni e valutazioni teorico-pratiche.
Ed ecco comparire i lampadieri, gli esploratori, i pontieri, con i quali il faro interagisce senza mai diventare uno di loro. Ben venga la biodiversità delle sperimentazioni. Uno scenario che vorrei animato da iniziative tutte diverse per intenti e struttura, ma tutte uguali per chiarezza e coerenza.
La chiarezza per non ingannare. La coerenza per non deludere. Alla fine il problema non è la misura della coerenza, ma l’uso prudente delle dichiarazioni per evitare di trasformarsi in falsi profeti.
Un caro saluto, Francuccio
Anch’io leggendo della vicenda Unipol ho pensato al commercio equo, giungendo però a conclusioni differenti da quanto ho letto su Altreconomia. Ho pensato: come siamo diversi noi del Fair Trade italiano! Per noi la crescita economica degli ultimi anni si è tradotta in una più forte azione culturale, mentre la nostra base sociale (quella del Consorzio Ctm altromercato, per esempio) non avrebbe mai assistito passivamente ad azioni della dirigenza su cui non concordava. Constatare che chi vuole coniugare etica ed affari (avendo come obiettivo il sostegno ai piccoli produttori tramite la vendita di loro prodotti, e la modifica dell’economia internazionale e degli stili di consumo) corra dei rischi, e che tali rischi siano connessi “all’ambizione di crescere”, non ha nulla di eretico, ma si avvicina alla banalità, all’argomentazione abusata: non conosco giorno nel quale in un qualche luogo del Fair Trade non si pensi a ciò.
Per questo essere associati ad Unipol in funzione di quanto potrebbe accaderci mi ha lasciato perplesso. Così come il leggere che “le cooperative di importazione si alleano con i supermercati”. Le parole hanno un significato, ed io non conosco alleanze, ma accordi, contratti, relazioni operative. Così come chi pubblica un libro sul consumo critico non si allea con l’editore (che magari proprio sobrio non è), ma vi si relazione sulla base di accordi sottoscritti. C’è un solo tipo di organizzazioni con le quali siamo alleati (cioè ne condividiamo il destino e non sono solo clienti): le Botteghe del Mondo. Per ragionare sulle nostre contraddizioni, e sul come coniugare i nostri obiettivi “rivoluzionari” con una realtà che va in direzione opposta, occorre associare alle giuste preoccupazioni delle informazioni complete. Per esempio: oggi chiunque può verificare che in Italia alla crescita economica del commercio equo corrisponde una crescita degli investimenti (non di tutti) in azione politica e sociale; che la crescita non ha corrotto i principi della nostra base e dirigenza; che il commercio equo oggi in Italia è più forte di fronte ai tentativi di imitazione che ci minacciano. E sarebbe bene che quando si parla di “stupido suicidio” da parte del Fair Trade inglese a proposito della vicenda Nestlé, si aggiunga anche che tutto il commercio equo italiano vi si è formalmente opposto con motivazioni derivanti proprio dalla salvaguardia dei valori, della pratica e degli obiettivi del commercio equo, a mio avviso abbastanza ben custoditi dal Fair Trade italiano. Francuccio Gesualdi rivendica l’affermarsi di un altro modo di fare economia, ispirato a valori che tutti noi condividiamo. Ma è sbagliato non considerare che ciò avviene anche tramite il protagonismo delle “imprese” di commercio equo, e di come la crescita dei nostri fatturati (che non aumentano i consumi, ma sostituiscono iniquità con equità) sia un indice (non il solo, ovvio) della nostra capacità di impatto. Entro limiti e regole predefinite, per il commercio equo la crescita non è affatto in opposizione alla coerenza: questo è l’errore di base.
Ma perché dovrei sentirmi incoerente nel sognare che le Botteghe del Mondo siano in grado di corrispondere salari equi ai propri lavoratori? La sostenibilità delle organizzazioni dell’economia alternativa non aiuta il percorso verso un altro modello di sviluppo? Vorrei poi anche che -onde evitare l’astrazione teorica- pensassimo assieme ad un cruccio che ci tocca molto: siamo cresciuti, ma siamo ancora lontani dal poter rispondere alla domanda di “commercio equo” che ci viene dagli sfruttati. Come rapportarsi a ciò mantenendo la consapevolezza che l’accesso al mercato non è la soluzione per tutti gli emarginati?
Giorgio Dal Fiume, Ctm altromercato