Interni / Reportage
È ancora notte fonda sulla ex Ilva. Taranto aspetta un piano per il futuro
È possibile “decarbonizzare” l’acciaio e che cosa significa per il lavoro, la vita dei tarantini, la città? L’acciaieria vivacchia nella totale assenza di una strategia industriale e di risanamento, mentre si respira un’aria di chiusura per consunzione. E restano irrisolti i nodi delle bonifiche, dell’inquinamento e degli impatti sulla salute
C’è un futuro per lo stabilimento siderurgico di Taranto? Cioè: è possibile “decarbonizzare” la produzione di acciaio e renderla compatibile con la salute della città e dei suoi abitanti? È la domanda che divide Taranto dal 2012, quando la magistratura ha posto sotto sequestro l’area “a caldo” dello stabilimento, cioè gli altoforni e le cokerie, mettendo l’Ilva sotto accusa per disastro ambientale. Da allora la città pugliese è polarizzata tra chi chiede la riconversione dello stabilimento, per salvare insieme la salute dei cittadini e l’occupazione, e chi vorrebbe l’ex Ilva definitivamente chiusa e smantellata.
Oggi però l’acciaieria più grande d’Europa sembra scomparsa dai radar, insieme alla contaminazione ambientale e al tributo di tumori e malattie che i tarantini continuano a pagare. Come se qualcuno avesse deciso di lasciarla spegnere per consunzione, senza un piano preciso.
Facciamo il punto. Quella di Taranto oggi è l’unica acciaieria a “ciclo integrale” attiva in Italia: cioè la sola che produce acciaio dalla materia prima, minerale ferroso e carbone, attraverso cokerie e altoforni (il processo “a caldo”). È il procedimento più inquinante, e qui ha provocato una contaminazione profonda: lo testimoniano tra l’altro le istruttorie della magistratura, il sequestro degli impianti e il fallimento della proprietà (il Gruppo Riva), fino al processo denominato “Ambiente svenduto” concluso con la condanna in primo grado per 26 dirigenti aziendali e alcuni amministratori locali (maggio 2021).
Dopo il sequestro del 2012 l’ex Ilva è rimasta in attività, pur limitata, grazie a decreti che ne riconoscono il valore “strategico”, ma con nuove prescrizioni su sicurezza, emissioni e reflui. Eppure per attuare quelle prescrizioni ambientali (e neppure tutte) c’è voluto un decennio. Solo nel 2019 è stata completata l’opera considerata più urgente e perfino simbolica: coprire i “Parchi minerali”, i giganteschi depositi del ferro e del carbone situati all’interno dell’ex Ilva -quelli da cui ogni giorno di vento si alzava la polvere nera e rossastra che avvolgeva il quartiere Tamburi, adiacente allo stabilimento, e altre zone della città-. Sono arrivati nuovi filtri Meros ai camini (il quarto e ultimo solo l’estate scorsa), per abbattere le emissioni nocive. Procede con lentezza anche la bonifica interna al sito industriale, per rimuovere decenni di scarti accumulati nei terreni e nelle falde, di cui è responsabile la società Ilva in Amministrazione straordinaria.
Dunque oggi l’ex Ilva inquina meno che in passato. Anche perché la produzione è drasticamente calata: nel 2022 ha sfornato circa tre milioni e mezzo di tonnellate di laminati d’acciaio, anche se è autorizzata a produrne sei milioni di tonnellate annue (ne faceva oltre dieci milioni prima del sequestro).
Di riconversione però non c’è traccia. Eppure era l’obiettivo enunciato dai successivi governi: in particolare nel 2018, quando l’ex Ilva è stata venduta alla multinazionale franco-indiana ArcelorMittal, e poi nel 2020-2021 quando nella proprietà è entrata Invitalia (cioè lo Stato italiano, che oggi detiene il 38%) ed è nata la holding Acciaierie d’Italia. Il piano sarebbe abbandonare la lavorazione “a caldo” per adottare la tecnologia della “riduzione diretta” del minerale ferroso, nota con l’acronimo Dri (Direct reduced iron), con la costruzione di due forni alimentati da energia elettrica da cui esce un minerale chiamato “preridotto”, da trasformare in acciaio senza bisogno di altoforni. ArcelorMittal prevedeva di rilanciare la produzione a otto milioni di tonnellate annue o anche di più, se fosse stata autorizzata, cosa che avrebbe reso redditizia un’impresa oggi sovradimensionata.
Poi però nulla si è concretizzato; perfino la normale amministrazione è problematica, l’azienda ha continui problemi di cassa, al punto da non pagare le forniture di gas. Parte del problema è che gli impianti restano sotto sequestro, anche se attivi in deroga, e hanno collezionato procedure d’infrazione. Il futuro dello stabilimento resta vago, una riunione degli azionisti di Acciaierie d’Italia il 23 novembre non ha chiarito la situazione.
“Il governo ripete che l’ex Ilva non chiuderà ma non chiarisce la sua strategia”, osserva Lunetta Franco, presidente di Legambiente Taranto. L’organizzazione ambientalista ha tenuto un convegno nazionale con il titolo “L’acciaio oltre il carbone”, il 17 novembre nella città pugliese, proprio per affermare che riconvertire la siderurgia è possibile e urgente.
“Il Dri è una tecnologia ormai matura e permette di ottenere un acciaio di qualità simile a quella dell’attuale ex Ilva”, ha spiegato in quell’occasione Chiara Di Mambro, ricercatrice del centro studi sul clima ECCO: secondo la sua simulazione, un forno a riduzione diretta potrebbe entrare in funzione a Taranto nel 2026, alimentato dapprima con gas naturale e in futuro con idrogeno da produrre con massiccio uso di energie rinnovabili, investendo in sistemi di accumulo e elettrolizzatori. In Europa “ci sono già almeno quattro impianti Dri in costruzione, funzioneranno a idrogeno oppure a gas”, insiste Lunetta Franco: e poiché richiedono molta energia, “la riconversione dell’acciaio chiede anche di accelerare la transizione alle energie rinnovabili”.
Oggi però sembra tutto bloccato. Il Pnrr aveva destinato un miliardo di euro alla produzione di idrogeno per i settori industriali difficili da decarbonizzare (hard-to-abate), in primis la siderurgia, ma poi la voce è stata stralciata.
Intanto gli abitanti di Taranto, e soprattutto delle zone vicine allo stabilimento, restano “esposti a un rischio sanitario inaccettabile”, sottolinea Vito Bruno, direttore generale dell’Agenzia regionale di protezione ambientale (Arpa Puglia), anche lui intervenuto al convegno di Legambiente. Osserva che la presenza di alcuni contaminanti, come il benzene, è in crescita allarmante anche se per ora resta nei limiti di legge. Soprattutto, gli studi dell’Arpa concludono che il rischio resta inaccettabile anche applicando le prescrizioni dell’ultima Autorizzazione integrata ambientale, che del resto è scaduta lo scorso agosto e andrà riesaminata.
L’impatto della contaminazione si sentirà ancora a lungo. Lo testimonia il sesto rapporto Sentieri, lo studio epidemiologico sulle aree esposte a rischio industriale coordinato dall’Istituto superiore di sanità, pubblicato all’inizio di quest’anno (sui dati fino al 2017). E lo conferma lo studio aggiornato al 2020, elaborato dell’azienda sanitaria regionale (Aress Puglia) con la Asl di Taranto: dove si vede che la provincia di Taranto registra eccessi per tutte le cause di morte e di ricovero rispetto alla regione Puglia, e in particolare per una serie di patologie associate all’esposizione a contaminanti industriali. “Osserviamo che un lieve calo della mortalità in generale, ma nella provincia di Taranto resta più alta”, osserva Lucia Bisceglia, dirigente medico dell’Aress (il nuovo studio epidemiologico sarà presto accessibile su un nuovo sito, Open Salute Puglia, creato dall’azienda sanitaria pugliese). Del resto, nel quartiere Tamburi il tasso di mortalità e il rischio di malattie, tumori e tumori infantili è ancora più alto rispetto alla città nel suo insieme.
Anche il lavoro è a rischio. L’ex Ilva contava circa 10mila dipendenti nel 2017. ArcelorMittal ne ha ripresi 8.200, secondo l’accordo sindacale sottoscritto nel 2018; dopo dimissioni e prepensionamenti oggi restano circa settemila lavoratori di cui 2.500 in cassa integrazione ordinaria a rotazione. In fabbrica l’incertezza domina. “Perfino la manutenzione è diradata, gli impianti sono sempre più a rischio”, testimonia Francesco Brigati, segretario generale della Fiom di Taranto, lui stesso operaio alla ex Ilva in distacco sindacale.
Come uscire dalla palude? I sindacati dei metalmeccanici chiedono che Acciaierie d’Italia investa in un nuovo altoforno, indicato come Afo5, che permetta di chiudere quelli oggi in attività ma obsoleti, così da “rilanciare la produzione in modo più sicuro in vista della riconversione”, dice Loris Scarpa, responsabile per la siderurgia per la Fiom nazionale.
Un nuovo altoforno “sarebbe un ritorno al passato”, ribatte Maria Maranò, tarantina, della segreteria nazionale di Legambiente. L’organizzazione ambientalista non ha mai chiesto la chiusura dello stabilimento ma insiste affinché si proceda subito con i forni elettrici, il “preridotto”, le energie rinnovabili, e con tutte le bonifiche e gli interventi sociali necessari. Cita il Just Transition Fund, fondo europeo per la “transizione giusta”, che ha stanziato quasi 800 milioni di euro per Taranto con un piano approvato nel dicembre 2022 su tre direttrici: riqualificazione dei lavoratori, rivitalizzazione del tessuto economico e risanamento ambientale.
Su un punto però Fiom e Legambiente sono d’accordo: che in ogni futuro piano industriale sia obbligatoria una preventiva “Valutazione di impatto sanitario” (Vis), per valutare quanto e come si può produrre senza compromettere la salute di chi lavora e chi abita intorno allo stabilimento, invece di contare i danni dopo.
Ma “quale sarebbe un rischio accettabile?”, chiede polemica Virginia Rondinelli, del Comitato dei lavoratori e cittadini liberi e pensanti. “L’obiettivo è rischio zero. In quella fabbrica si continua a morire, gli abitanti si ammalano”. Sono impianti obsoleti, pericolosi: vanno smantellati per poter bonificare, ripulire, e anche pensare a nuove attività industriali sostenibili. “È un’illusione pensare che si possa bonificare quel sito a impianti attivi”, insiste Rondinelli: “Per Taranto questo è il tempo della riparazione”. Così torna il punto: riconvertire, chiudere, bonificare? Taranto aspetta un piano per il futuro.
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