Diritti / Attualità
Difendono l’ambiente, ma per i governi sono “nemici dello Stato”
Nel corso del 2018 almeno 164 attivisti sono stati assassinati, la metà in America Latina. E sempre più spesso vengono etichettati come criminali, terroristi e nemici dello stato. Anche in Europa e negli Stati Uniti. La denuncia dell’ong “Global Witness”
Julián Carrillo sapeva di essere in pericolo. Aveva ricevuto diverse minacce di morte, la sua casa era stata incendiata e cinque membri della sua famiglia (tra cui suo figlio) erano stati uccisi per essersi opposti come lui allo sfruttamento indiscriminato delle terre indigene nello stato del Chihuahua, in Messico. Dal 2007 Julián Carrillo lottava per i diritti del popolo indigeno Rarámuri a Coloradas de la Virgen, una comunità isolata della sierra Tarahumara. Difendeva il suo territorio dal disboscamento, dalle attività estrattive e dalle coltivazioni illegali di droga. Il 24 ottobre 2018 Carrillo è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da sicari che non sono mai stati identificati.
In Messico, la lotta per i diritti dei popoli indigeni e per la difesa dell’ambiente è costata la vita ad almeno 14 persone nel corso del 2018. “Ma la morte di Carrillo si inserisce all’interno di una preoccupante tendenza globale -denuncia l’ong “Global Witness”, che nel rapporto “Enemy of the state” fotografa il tragico bilancio pagato dagli attivisti nel corso del 2018-. Dal momento che la domanda di prodotti come legno, olio di palma e minerali continua a crescere a livello globale, i governi, le multinazionali e le gang criminali continuano a sottrarre terre e a distruggere habitat naturali a scopo di lucro”. Per scavare nuove miniere, per abbattere alberi da cui ricavare legname pregiato, per impiantare immense piantagioni di soia o palma da olio.
“Come hanno dimostrato le nostre indagini -scrive ‘Global Witness’-, i progetti alla base di queste violazioni dell’ambiente e dei diritti umani vengono spesso finanziati dai risparmi o dagli investimenti di persone comuni, il più delle volte a loro insaputa. Dall’energia all’agricoltura, i cosiddetti progetti di sviluppo in gran parte del mondo sono alla base della deforestazione dilagante, dello spostamento di massa e del caos climatico”. Se da un lato governi e multinazionali hanno il dovere di agire nel rispetto dell’ambiente e delle comunità, dall’altro consumatori, risparmiatori e titolari di fondi pensione possono aiutare a innescare un cambiamento positivo.
A fare le spese di questa situazione sono le popolazioni locali e le comunità indigene che, quando si oppongono a questi progetti di sfruttamento devono fronteggiare forze di polizia, compagnie di sicurezza private e agguerriti team di avvocati. I dati, a livello globale, sono allarmanti: nel corso del 2018 sono stati 164 gli omicidi documentati di attivisti -più di tre a settimana-, ma il numero delle vittime potrebbe essere persino più alto. Le Filippine sono il Paese in cui è stato registrato il numero più elevato di omicidi (30 di cui 15 collegati all’agribusiness). Ma è l’America latina il continente in cui si concentrano la maggior parte delle vittime: circa la metà del totale registrato nel 2018. Quarantatré attivisti sono stati uccisi per il loro impegno nella lotta contro aperture di nuove miniere, mentre 21 si erano opposti a nuovi progetti di agribusiness.
Le statistiche e i dati sugli omicidi ai danni degli attivisti, tuttavia, raccontano solo una piccola parte delle storie e delle lotte per la difesa dell’ambiente. I governi e le aziende ricorrono sempre più spesso ai tribunali come strumenti di pressione e intimidazione contro coloro che minacciano il loro potere e i loro interessi. Etichettando gli attivisti come criminali, terroristi e nemici dello stato. Arresti arbitrari e leggi draconiane, che restringono gli spazi di critica e dissenso da parte della società civile sono ulteriori armi che limitano il lavoro degli attivisti.
Come è successo a nove scienziati iraniani membri della “Persia wildlife heritage foundation” impegnati nella tutela di una rara specie di ghepardo a rischio di estinzione, arrestati nel gennaio 2018 con l’accusa di spionaggio. Nell’ottobre 2018 quattro di loro sono stati accusati di corruzione e l’ambientalista Kavous Seyed-Emami è morto in prigione in circostanze sospette. Secondo Global Witness l’arresto degli scienziati è servito per mandare un messaggio a tutti i difensori dell’ambiente, che ora vengono considerati nemici di un sistema statale scosso da proteste, alcune delle quali scatenate dalla scarsità d’acqua.
Nemmeno Paesi democratici come quelli europei o gli Stati Uniti sono immuni da queste prassi. Red Fawn Fallis, attivista indigena attiva nelle proteste contro la “Dakota access pipeline” è stata condannata a 57 mesi di carcere. Mentre in Inghilterra, nel settembre 2018 Simon Blevins, Richard Roberts e Rich Loizou sono stati condannati a 15 e 16 mesi di carcere al termine di una lunga serie di proteste -iniziate nel luglio 2017- contro l’avvio di un sito di fracking in Lancashire. “Negli ultimi anni il sistema giudiziario inglese è stato sempre più spesso usato dalle compagnie gas&oil per silenziare le opposizioni”, denuncia “Global witness”.
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