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Dietro il velo della giustizia – Ae 36
Numero 36, febbraio 2003Lo scorso novembre è scomparso il filosofo americano, autore del celebre volume Una teoria della giustizia. Un libro che da trent'anni dice che l'equità non è un lusso, ma il prerequisito di ogni istituzioneJohn Rawls è considerato…
Numero 36, febbraio 2003
Lo scorso novembre è scomparso il filosofo americano, autore del celebre volume Una teoria della giustizia. Un libro che da trent'anni dice che l'equità non è un lusso, ma il prerequisito di ogni istituzione
John Rawls è considerato l'autore di un solo grande libro, pubblicato all'età di cinquant'anni, nel 1971, quando già da tempo occupava la cattedra di filosofia politica all'Università di Harvard. Il titolo rivela una certa sobrietà, per non dire modestia, dell'autore: A Theory of Justice, Una teoria della giustizia, come a dire: anch'io provo a dire la mia.
Modestia, sobrietà, chiarezza e rigore, come noto, sono i tratti più felici della filosofia analitica, quella corrente che ha dominato a lungo il pensiero di lingua inglese, e che nell'ultimo ventennio ha sempre più preso piede anche in Europa. Questa premessa è necessaria perché quando uscì, Una teoria della giustizia, era un libro molto lontano per linguaggio e stile dalla cultura che andava per la maggiore qui in Europa. Il dibattito a cui diede vita, la replica di Nozick nel 1974 con Anarchy, State, Utopia (vedi box a fianco), suo collega ad Harvard e grande rivale teorico, e I diritti presi sul serio di Richard Dworkin (1977), per lungo tempo non hanno fatto parte dell'interesse culturale europeo. La fortuna di Rawls è insomma molto tardiva, dopo il crollo del muro di Berlino per farla breve, quando molti intellettuali continentali si trovarono privi dei loro riferimenti più o meno forgiati dalla tradizione di Hegel e Marx, e cominciò la corsa a qualcosa di nuovo. E Rawls, il mite professore di Harvard divenne il punto di riferimento culturale anche dalla vecchia Europa: sei con Rawls o contro di lui?
A Theory of Justice è un libro ponderoso, nelle sue oltre cinquecento fittissime pagine. Il problema di Rawls è fornire un'alternativa alla tradizione culturale da cui proviene, fortemente segnata dal culto della libertà individuale del liberalismo classico e dell'utilitarismo sociale, la dottrina che afferma l'importanza di massimizzare la felicità per il più alto numero di persone (ma non necessariamente per tutti). L'alternativa Rawls la troverà in una ibridazione di questo modello con quella corrente continentale detta contrattualista, che Rawls condirà abbondantemente col rigorismo morale di Kant e la sua preoccupazione di trovare istituzioni giuste che garantiscano la pace per tutti.
Cosa è la giustizia per Rawls? Innanzitutto, non un lusso che la politica può concedersi quando va bene, ma il requisito delle istituzioni sociali stesse “allo stesso modo in cui la verità lo è dei sistemi di pensiero”. Insomma, come la condizione della ricerca storica è quella di essere accurati, veritieri e critici, quello della politica correttamente intesa dovrebbe essere la giustizia. Ma quale giustizia? La prima avvincente parte del volume si avvicina a cerchi concentrici alla proposta rawlsiana. Intanto, contro un certo utilitarismo, ma anche contro i totalitarismi di destra e sinistra che hanno segnato il Novecento, la giustizia rawlsiana nega risolutamente “che la perdita di libertà per qualcuno possa essere giustificata” dal fatto che altri, anche se la maggioranza, godano “maggiori benefici”. Insomma a un governo che dicesse: “eliminiamo gli ebrei, o i borghesi”, oppure “sfruttiamo questa minoranza”, perché i molti godano, Rawls oppone un netto rifiuto dal momento che “ogni persona possiede una inviolabilità” che non consente a nessuna ragion di Stato di intervenire con violenza. Questo è il liberalismo di Rawls.
Tuttavia Rawls si sforza di pensare realisticamente, sa bene che la giustizia non è di questo mondo, e allora propone un criterio per “avere a che fare” con le ineguaglianze.
Se ineguaglianze devono essere, ci dice Rawls, esse possono essere giustificate solo dal fatto “di produrre benefici compensativi per ciascuno, e in particolare per i membri meno avvantaggiati della società”. Insomma Rawls esclude di “giustificare le istituzioni in base al fatto che i sacrifici di alcuni siano compensati da un maggior bene aggregato”. “Il fatto che alcuni abbiano meno affinché altri prosperino -graffia Rawls- può essere utile, ma non è giusto”. Giusto insomma non è necessariamente utile. Detto ancora meglio: il giusto potrebbe rivelarsi anti-economico, costoso diremmo noi. Questa è l'anima kantiana di Rawls.
Insomma, conclude Rawls, “le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere combinate in modo da essere: a) ragionevolmente previste a vantaggio di ciascuno; b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti”. Questo è infine il riformismo, diremmo oggi in Italia, “realistico” di Rawls.
Le conseguenze politiche di un impostazione del genere sono ben evidenziate da uno studioso come Stefano Petrucciani: “le ineguaglianze di reddito di una società capitalistica possono essere accettabili e non inique solo se, grazie a un robusto intervento redistributivo, contribuiscono a garantire a tutti quei beni sociali fondamentali grazie ai quali gli individui possono costruire i loro progetti di vita. Ma non hanno nessuna legittimità al di fuori di questo quadro, che definisce i termini e i limiti di quello che possiamo considerare una cooperazione sociale equa”.
Più originale, e celeberrimo, è il modo attraverso cui Rawls propone di stabilire il percorso che, attraverso un contratto, porti alla costruzione di istituzioni “giuste”, nel senso ora chiarito. È la famosa strada del velo d'ignoranza, il colpo di genio kantiano di Rawls. Un certo giorno, proviamo a raccontarla così, i 150 membri dell'Onu arrivano al palazzo di Vetro per decidere di scrivere il nuovo statuto dell'Organizzazione. Stabilire insieme i valori, ma anche le procedure dell'Onu: decisione a maggioranza? decisione all'unanimità? modello del Consiglio di sicurezza?
È chiaro che, nella situazione di oggi, i cinque Paesi membri del Consiglio di sicurezza proporranno di mantenere quel modello, mentre, mettiamo, i Paesi del Sud proporranno il voto a maggioranza, essendo di più. Come se ne esce? Rawls dice: facciamo che un'amnesia colpisca i 150 negoziatori, che scenda il velo di ignoranza. Nessuno di loro saprà più chi è e dunque che posizione occuperà dopo nel sistema. Insomma se io sono il faraone o il suo rappresentante proporrò la piramide come modello politico più efficace. Ma se nel momento della scelta non sapessi più chi sono e dunque quale posizione occuperò nel sistema, siamo sicuri che voterei per la piramide (col rischio di fare lo schiavo) e non per un più equilibrato modello paritario? “I principi di giustizia” chiosa Rawls, sono tali se scelti da attori “reciprocamente disinteressati”, cioè “sotto un velo d'ignoranza”.
Naturalmente il modello rawlsiano è molto interessante per vedere che conseguenze crea una volta applicato alle strutture sociali esistenti, a quelle economiche, politiche e culturali.
Se l'ingiustizia è per Rawls la situazione in cui “le ineguaglianze presenti non vanno a beneficio di tutti”, l'istantanea dell'attuale economia mondiale non potrebbe certo essere definita da Rawls come particolarmente vicina alla sua visione di una società equa. La politica, per usare due termini molto rawlsiani, avrebbe avuto molto da “riparare e redistribuire”.!!pagebreak!!
Un democratico radicale
John Rawls, il maggior filosofo politico americano, è scomparso all'età di 81 anni lo scorso novembre. Nato nel febbraio del 1921 a Baltimora (Maryland), ha studiato a Princeton dove per breve tempo ha insegnato prima di passare ad Oxford. Dal 1962 ha iniziato la sua attività presso la Harvard University dove dal 1979 è stato Conant University Professor. Tra gli altri suoi libri ricordiamo Liberalismo politico (1994).
I commenti italiani alla sua scomparsa hanno intrecciato filosofia e politica, teoria e ricadute pratiche. Chi è stato davvero Rawls? Secondo Salvatore Veca, il suo maggior studioso in Italia, l'esito del percorso di Rawls “è un abbozzo delle linee di una teoria della giustizia internazionale”.
Bruno Gravagnuolo, sull'Unità, equipara Rawls al movimento anti fascista “Giustizia e libertà”, “robusto tentativo di riconciliazione fra tradizione liberal-democratica e critica dell'ineguaglianza. All'insegna del tema della giustizia distributiva.
Paradossalmente si può dire che le idee di Rawls ebbero il ruolo che le idee di Carlo Rosselli e Guido Calogero non avevano potuto svolgere. Quanto alla politica terrena, Rawls era un democratico radicale americano. Era contro il finanziamento privato alle elezioni. Critico della telecrazia e dei monopoli mediatici. Favorevole alla sanità e alla scuola pubblica. E pensava che in Europa la democrazia fosse 'più forte' che negli Usa”.
Per Sebastiano Maffettone, presidente della società italiana di Filosofia politica e amico personale di Rawls, Una Teoria della Giustizia “ha avuto anche in Asia e in Africa un impatto incredibile. Rawls è un liberal americano che, con Una teoria della giustizia, ha creato un cocktail ambizioso e riuscito di libertà ed eguaglianza, che ha reso la sua opera affine non solo a quella dei liberali classici ma anche a quella dei socialdemocratici europei”.
La replica dell'avversario: uno “Stato minimo” per non disturbare le armonie individuali
Per uno di quei paradossi della storia, l'avversario più celebre e implacabile di Rawls, il filosofo Robert Nozick, era collega ad Harvard di Rawls ed è scomparso lo stesso anno, benché assai più giovane di Rawls.
Nozick rispose a Rawls tre anni dopo A Theory of Justice con il suo Anarchy, State, Utopia. Erede rigoroso del liberalismo individualista anglo-americano, Nozick muove dall'idea che ogni individuo sia possessore di un suo intangibile spazio di libertà. Ciò premesso, la domanda è: “Quanto spazio lasciano allo Stato i diritti degli individui?”. La risposta è quella classica: poco o niente. Giusto il compito del guardiano notturno, lo “Stato minimo” che si limiti a non disturbare le felici armonie dell'interesse individuale.
Interessante la difesa radicale che Nozick fa dei diritti degli animali, che introduce con un certo anticipo un tema oggi molto forte nel dibattito filosofico: “la questione non è 'possono ragionare? possono parlare?' ma: 'possono soffrire?'”
Uno dei suoi ultimi libri, La vita pensata (1989), tentava né più né meno di dare un quadro filosofico compiuto delle esperienze, non solo intellettuali, più importanti della vita: “l'amicizia, l'amore, la comprensione intellettuale, il piacere sessuale, ottenere ciò che si desidera, l'avventura, il gioco, il lusso, la fama, il potere, l'illuminazione, e il gelato”, diceva Nozick.