Economia / Opinioni
Dalla “Porta globale” europea rientrano colonialismo e disuguaglianze
Tre anni fa l’Ue ha lanciato la sua alternativa alla “Nuova Via della seta” cinese. Avrebbe dovuto promuovere gli interessi dei Paesi a basso reddito, distinguendosi da Pechino e mobilitando fino a 300 miliardi di euro tra 2021 e 2027. Ma un rapporto indipendente di una rete di Ong ne traccia un bilancio amaro, smontando la retorica della Commissione von der Leyen. L’editoriale del direttore, Duccio Facchini
Quando Ursula von der Leyen ha presentato il 18 luglio a Strasburgo le linee guida politiche della nuova Commissione europea (2024-2029), ha dedicato un passaggio a un’iniziativa di cui in Italia si parla poco. La riconfermata presidente ha scritto che “il terzo filone della nostra politica estera economica è costituito dai partenariati e dagli investimenti congiunti nei nostri interessi e in quelli dei nostri partner attraverso la Global gateway, la nostra iniziativa per investire in progetti infrastrutturali in tutto il mondo”.
La Global gateway, o “Porta globale”, è stata lanciata tre anni fa dall’esecutivo dell’Ue come “offerta positiva” verso i Paesi a basso e medio reddito dell’impropriamente detto “Sud del mondo”. Un’alternativa sostenibile e trasparente, era stato assicurato, alla “Belt and road initiative”, quella “Nuova Via della seta” promossa dalla Cina e dipinta in Occidente -non senza ipocrisie- come una strategia aggressiva per accrescere la presenza geopolitica ed economica di Pechino in continenti chiave, in particolare in Africa, influenzarne il posizionamento internazionale in cambio di soldi e infrastrutture, determinarne la subalternità, vincolarne lo sviluppo, sottrarne le risorse.
L’obiettivo della Global gateway europea era quello di mobilitare fino a 300 miliardi di euro di investimenti tra il 2021 e il 2027, prendendoli dai fondi per la cooperazione e lo sviluppo, in cinque aree decisive: digitale, clima ed energia, trasporti, salute, istruzione e ricerca. Da infrastrutture fisiche come cavi sottomarini o corridoi di trasporto ed energie rinnovabili, fino a un’agenda di riforme per dar vita a un “ambiente economico favorevole” che faciliti gli investimenti europei. Tutto bellissimo, fino a quando il network di 60 Ong europee che si occupano di debito e sviluppo (Eurodad), la piattaforma Counter Balance e Oxfam, non ci hanno guardato dentro. “A un esame più attento -hanno scritto le tre organizzazioni presentando a inizio ottobre un aggiornato report a riguardo– risulta chiaro che la Global gateway presenta molti problemi”. A supportare la tesi c’è uno studio approfondito di 40 progetti “faro” realizzati finora, “in particolare nei settori dell’energia e del clima (comprese le materie prime), del digitale e della salute”.
Risultato: in 25 dei 40 progetti a “marchio” Global gateway esaminati “almeno un’azienda europea ha beneficiato del progetto. Tra queste figurano grandi società come Siemens, A.P. Moller Group, Suez e BioNTech. La presenza di aziende europee nella maggior parte dei progetti analizzati indica un rischio elevato che la Global gateway dia priorità alla promozione di opportunità per le imprese europee nel Sud del mondo rispetto a obiettivi di sviluppo come la riduzione della povertà”. Le multinazionali europee ci guadagnano mentre ci perdono i Paesi in teoria “partner”, incoraggiati a privatizzare infrastrutture e servizi pubblici nel settore energetico con il riflesso di aggravare l’onere del debito. I progetti, fanno notare le tre Ong, sono presenti infatti in 29 dei 37 Paesi poveri fortemente indebitati, mettendo così in crisi la loro già fragile capacità di soddisfare i bisogni fondamentali dei propri cittadini.
Diritti umani e ambiente non se la passano meglio. Quattro dei tredici progetti sull’idrogeno ad alta intensità di uso dell’acqua sono pianificati in Paesi che registrano un alto stress idrico, sono stati poi accertati finanziamenti diretti a colossi fossili tipo la francese TotalEnergies, e dalla “Porta globale” è passato anche un contestatissimo accordo sulle materie prime con il Ruanda. Per non parlare del formale coinvolgimento del Business advisory group (Bag), una sorta di gigantesca rete di lobby composta da 59 grandi aziende e reti imprenditoriali soprattutto europee. I nomi dei membri del Bag compaiono in diversi progetti, come ad esempio quello del cavo sottomarino Medusa sviluppato anche da Orange e Alcatel, di proprietà di Nokia. L’Ue deve cambiare rotta, è l’appello delle tre Ong. A metà aprile 2025 in Spagna si terrà la quarta Conferenza delle Nazioni Unite sul finanziamento dello sviluppo. Potrebbe essere una buona occasione.
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