Diritti / Approfondimento
Da rapinatore a mediatore penale. Lorenzo Sciacca e quell’idea diversa di giustizia
A Biella il protagonista del podcast “Io ero il milanese”, prodotto da RaiPlay Sound, ha raccontato la sua storia: più di vent’anni passati in oltre 30 istituti penitenziari del Paese. Poi il cambiamento. È diventato mediatore penale facendo della giustizia, tanto “odiata” in passato, la sua più grande passione
“La mia è la storia di tante altre persone, io le ho solo dato voce. Non sono un eroe: gli ‘eroi’ sono quei ragazzi cresciuti con me nel quartiere Librino di Catania con famiglie e un passato più pesante del mio ma che non hanno scelto di fare il delinquente. È un atto dovuto tornare a rispettare le regole, non eroico”. Lorenzo Sciacca lo sottolinea con fermezza davanti alle oltre 200 persone che sabato 13 maggio a Biella, in una serata organizzata dall’associazione Hopeclub, hanno ascoltato la sua storia e, soprattutto, il suo presente. Dopo “mezza” vita da rapinatore seriale trascorsa poi nelle carceri di tutta Italia -e raccontata nel podcast diretto da Mauro Pescio “Io ero il milanese”, diventato anche un libro pubblicato per Mondadori nel gennaio 2023- Lorenzo, 46 anni, è infatti diventato mediatore penale facendo della giustizia, tanto “odiata” in passato, la sua più grande passione. “Non tanto la giustizia retributiva, che decide quanto e come sarà la pena -spiega-. Ma quella riparativa che fa incontrare le persone, le fa riflettere su quanto è successo in un confronto capace di guardare al futuro”.
Un futuro che, per tanti anni, per Lorenzo è stato un continuo programmare e mettere a punto piani di evasione dal carcere e rapine in banca. Nato a Milano, al Giambellino, vicino al Naviglio Grande, si trasferisce da piccolo a Catania andando a vivere nel quartiere di Librino. Ha 14 anni quando, per la prima volta, spalanca le porte di una banca e urla “questa è una rapina”. Il bottino da un milione di lire gli resta tra le mani per poco: la polizia, poche ore dopo il colpo, arresta tutti. Lui viene portato al carcere minorile Beccaria di Milano. “L’adrenalina che avevo provato era come una droga, più la stimoli e più se ne crea. Non volevo più rinunciare a quella sensazione di potere e controllo sugli altri. E soprattutto al denaro che ti acceca e ti fa calpestare l’altro. In quel carcere, al Beccaria, ho scelto di fare il rapinatore”. La chiama “scelta” Lorenzo, e non si fa sconti. L’aver conosciuto il padre in carcere, anche lui per rapina, l’ambiente difficile in cui è cresciuto non sono un alibi. “Se avessi cercato delle scuse, nella mia vita, non sarei qua oggi: la verità è che l’unica cosa che pensavo è che sarei stato più furbo di mio papà e non mi sarei fatto prendere”.
E invece, la realtà è diversa. Lorenzo non sa precisamente quante banche ha rapinato perché sono troppe. Ricorda però gli oltre 20 anni spesi in cella, in più di 30 carceri d’Italia. Una realtà “rigida” in cui il cambiamento è difficile in cui la persona, privata della libertà, intrisa in un contesto di violenza si aggrappa a qualsiasi appiglio per sopravvivere. E per un rapinatore è il prossimo colpo, quello perfetto. “Ero ossessionato, mi ‘salvava’ quello in un luogo che è molto difficile: vieni deresponsabilizzato, non puoi fare niente senza chiedere il permesso, dalla doccia alla sigaretta. E soprattutto devi tenere un ruolo: il mio era quello del bandito”.
La detenzione incide inevitabilmente anche sugli affetti, sulle relazioni con familiari, figli e compagne. L’impossibilità di avere momenti di intimità -“la sessualità per i detenuti e le detenute continua a essere un tema che sembra non esistere”- Lorenzo la conosce fin da piccolo: come detto conosce il papà in carcere e quegli incontri brevi, con un vetro che lo separava dalla figura paterna e il rumore delle chiavi sbattute dall’agente sulla porta ogni volta che c’era un contatto tra i due sono ricordi indelebili. Quando poi in carcere c’è lui, poco cambia. “Quando facevo i colloqui con i miei famigliari, loro, pensando di proteggermi, non mi raccontavano le difficoltà che vivevano fuori, anche a causa mia. Questo è sbagliato: così io vivevo in una bolla di vetro, continuando a pensare che in fondo non avevo fatto male a nessuno”. Un male che invece è stato fatto. “Non mi rendevo conto che ci fossero delle vittime nelle mie azioni: anzi, mi sentivo dalla parte giusta perché le banche venivano risarcite e io spendendo i soldi delle rapine facevo girare l’economia”.
Una presa di coscienza che arriva nel carcere di Padova grazie all’incontro con Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti, giornale interno all’istituto. Una conoscenza che fa scattare qualcosa in Lorenzo. Dopo essere entrato nella redazione, comincia a incontrare studenti di 16, 17 anni che entrano per conoscere le loro storie. E fanno domande scomode. Ricorda un momento preciso in cui a un altro dei detenuti presenti in sala viene chiesto se avesse mai pensato a suo figlio. Lo stesso figlio che, durante una tragica e violenta notte, aveva ferito quasi a morte poco dopo aver accoltellato la moglie. Quest’uomo racconta che suo figlio continuava ancora a venirlo a trovare nonostante tutto. “Quello che ha ucciso la mamma non è mio padre”, diceva. Quelle domande scuotono Lorenzo. “Io ero convinto di essermi occupato di mio figlio: ogni volta che uscivo gli compravo tutto quello che voleva. Ma la realtà era diversa, per anni avevo calpestato le persone attorno a me senza rendermene conto. Forse quello che mi ha fatto cambiare è stato cominciare ad ascoltare davvero le persone, per la prima volta in tanti anni”.
Così, la domanda diretta e senza fronzoli di un giovane di 16 anni incide per sempre sul percorso di vita di Lorenzo che sceglie la “legalità” e non solo. “A 15 anni per me la libertà era incoscienza, a 20 menefreghismo, a 40 responsabilità”. Ed è la responsabilità di assumersi le colpe e cambiare vita, ripartendo da zero. Lorenzo esce dal carcere di Padova nel luglio 2017 e, grazie all’incontro con Adolfo Ceretti, criminologo di fama mondiale, comincia un corso per diventare mediatore penale. Oggi coordina un centro di giustizia riparativa proprio nella città veneta e lavora per costruire paradigmi di giustizia diversi. “A me il carcere è servito. Non sono abolizionista perché ha fermato la mia follia. Ma questo non toglie che non funzioni, non rieduca. E non succede soprattutto perché la società non entra in quel luogo. I detenuti hanno bisogno di sentire storie ‘ordinarie’, delle difficoltà di ognuno di noi, di un dialogo schietto è aperto: non è un paradosso che la mia vita sia cambiata soprattutto grazie alla domanda di uno studente”. Lorenzo S. denuncia poi la “tortura” del 41-bis e dell’ergastolo ostativo (“tanto vale ripristinare la pena di morte: ho conosciuto tante persone in quella condizione di perenne detenzione”).
Lo sguardo, la prospettiva è quella della giustizia riparativa. Che Lorenzo descrive così. “Far incontrare le persone e dirsi cosa è successo. Se uno subisce un furto in casa, si chiederà perché hanno scelto proprio la sua abitazione. Una domanda che rischia di diventare un loop, senza risposta. Una fissazione. Ma la risposta può arrivare solo dal rapinatore, non da un giudice e men che meno dal suo avvocato. Ecco, la mediazione fa incontrare le persone per dirsi cosa è successo: non una contrattazione, come quella che potrebbe fare un amministratore condominiale seguendo regolamenti e codici. Una mediazione vuole superare la situazione conflittuale insieme, con tutti i partecipanti, vittime e reo, che ne traggono beneficio”. Per superare la sete di vendetta, da una parte, e prendere consapevolezza delle proprie azioni dall’altra. “Ridandosi dignità a vicenda e, soprattutto, facendo ‘giustizia’ anche alla società: vittima indiretta di ogni reato che torna ad avere un ruolo per vedersi curate le sue ferite”.
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