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Finanza / Opinioni

Da che cosa dipende davvero l’aumento dei prezzi alla pompa di benzina

© Markus Spiske - Unsplash

Da più parti si imputa il boom alla domanda estiva o al taglio della produzione da parte dell’Opec+. In pochi guardano però al “luogo” dove si fa il prezzo dei carburanti, cioè il listino privato londinese Platts, in mano ai grandi fondi e regolato dalla speculazione finanziaria. La stessa dinamica vista su grano e zucchero, scrive Alessandro Volpi

I prezzi della benzina alla pompa sono tornati sopra i due euro al litro, costringendo il governo a dichiarare che si tratta di casi isolati. Una parte dell’informazione scrive che ciò dipende dall’aumento della domanda estiva determinata dagli italiani in vacanza e dal taglio della produzione del petrolio da parte dell’Organizzazione dei Paesi esportatori (Opec+).

Entrambe le motivazioni indicate contribuiscono solo in parte (limitata) a spiegare il fenomeno. In particolare, il taglio della produzione del petrolio incide, per ora, davvero poco. I tagli deliberati da Opec+, infatti, non sono ancora in vigore, se non in minima parte, ma, soprattutto, il prezzo dei carburanti non è definito attraverso le borse petrolifere ma nel listino londinese Platts, dove vengono giornalmente prezzati i carburanti.

Il listino è privato ed è di proprietà di McGraw-Hill, che, a sua volta è posseduta dai grandi fondi Capital World Investors, Vanguard, BlackRock e State Street Global advisors. Dunque il prezzo del petrolio pesa solo in parte mentre incidono moltissimo le scommesse speculative fatte in quel listino londinese dove i soggetti che operano, cioè che “arbitrano” i prezzi, sono anche i proprietari del listino stesso. In questo momento, dopo mesi di congelamento dei prezzi, le aspettative sono, almeno in parte, ripartite al rialzo. Sulle benzine italiane influiscono in maniera decisiva, per ben oltre la metà del prezzo, le accise e il carico fiscale che il Governo Meloni, al di là delle dichiarazioni in campagna elettorale, non ha tagliato.

In sintesi, ancora una volta, la narrazione per cui i prezzi salgono per la maggiore domanda e per il prezzo del petrolio, peraltro fermo intorno agli 80 dollari al barile, nasconde la verità dei fatti.

E sempre in tema di prezzi è ripartita un’altra narrazione tossica secondo la quale il blocco del grano ucraino da parte russa produrrà centinaia di migliaia di morti di fame. Si tratta, davvero, di una colossale balla. La produzione mondiale di cereali, infatti, è pari a poco meno di 2.800 milioni di tonnellate, di cui quasi 1.000 sono prodotte da Cina e Stati Uniti, mentre le tonnellate a lungo bloccate nei porti ucraini non arrivavano a 25 milioni. Dunque è evidente che si tratta di una quantità che sarebbe stata e sarebbe facilmente sostituibile con altre produzioni provenienti dai principali esportatori mondiali.

Gridare al disastro serve però ad altro: i prezzi, di fronte alla narrazione della penuria, sono schizzati in alto per effetto delle gigantesche scommesse speculative sugli stessi prezzi del grano ad opera dei fondi finanziari. I prezzi sono saliti per la speculazione e non certo per i 25 milioni di tonnellate bloccate. Ma c’è di più.

Durante l’ultimo anno, dopo la firma dell’accordo che ha sbloccato i porti del Mar Nero, sono uscite da quell’area 32 milioni di tonnellate tra grano, mais, olio di semi e orzo che si sono indirizzate a saturare i già forniti mercati dei Paesi più ricchi per oltre il 75%, mentre solo per il 25% sono arrivate nei Paesi più poveri, per una quantità decisamente irrisoria.

La “fame nel mondo” dipende dall’alto prezzo dei beni agricoli, dettato dalla speculazione finanziaria che trova solo una delle tante occasioni nella narrazione tossica del blocco navale, e dalla destinazione dei beni agricoli verso le aree ricche del Pianeta.

Se serve, è possibile un’altra dimostrazione di queste dinamiche. Prendiamo il prezzo dello zucchero, che è impazzito e ha raggiunto i mille euro a tonnellata, il doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. Che cosa sta succedendo? È crollata la produzione? No: le stime dicono che si tratta di una riduzione complessiva inferiore al 10%, a fronte di una domanda ferma. Ma si stanno “negoziando” i contratti 2023-2024 e sono partite in maniera massiccia le speculazioni finanziarie al rialzo.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.

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