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Cultura e scienza / Attualità

Cristian Mungiu. Il cinema che indaga gli effetti della globalizzazione sull’Europa

Da "Animali selvatici" del regista Cristian Mungiu

È uscito “Animali selvatici”, il sesto film del regista romeno che affronta il tema della globalizzazione e dei suoi riflessi sulle comunità europee, realizzando un riuscito dramma di frontiera ambientato in Transilvania. Nato da un fatto realmente accaduto, riprende temi ricorrenti: dal ritorno alla piccola comunità che si sente minacciata

La Risonanza magnetica nucleare (Rmn) è un modo per studiare la materia usando un forte campo magnetico. Misura il movimento di particelle cariche, come i protoni, quando sono influenzate da questo campo. In medicina è usata per diagnosticare le malattie interne al corpo, soprattutto per quanto riguarda l’indagine dei tumori. “Rmn” è anche il titolo originale del nuovo film di Cristian Mungiu (tradotto in italiano con “Animali selvatici”) ed è difficile non pensare che, oltre a un riferimento nella trama, questo titolo non sia una metafora della tecnica filmica e della poetica del regista romeno: indagare una realtà sociale, non fermandosi alla superficie ma scavando a fondo a costo di incontrare contraddizioni.

Da quando ha esordito nel 2002 con “Occident”, Mungiu ha realizzato sei lungometraggi sempre raccontando persone normali, gente comune alle prese con situazioni drammatiche (“Oltre le colline” del 2012, “Un padre, una figlia” 2016), ottenendo la consacrazione con “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” nel 2007, Palma d’oro a Cannes, storia di una donna che prova ad abortire illegalmente nella Romania di Ceausescu. Il regista appartiene alla cosiddetta generazione dei “postdicembristi”, un gruppo di intellettuali che si sono formati dopo la rivoluzione romena del 1989, che hanno dovuto fare i conti con la transizione storica del loro Paese, aspetto che emerge nell’unica commedia collettiva che ha realizzato e prodotto, “Racconti dell’età dell’oro”, un grottesco catalogo su tutte le leggende metropolitane dell’epoca comunista.

In quest’ultima prova, “Animali selvatici”, in sala in Italia, Mungiu affronta il tema della globalizzazione e dei suoi effetti sulle comunità locali europee, realizzando un riuscito dramma di frontiera.

Nel film viene raccontata la storia di Matthias che, dopo aver litigato in una fabbrica tedesca dove, come tanti suoi connazionali, si è trasferito a lavorare, torna nel suo villaggio di origine, Recia, nella splendida e selvaggia Regione della Transilvania. Qui si trova in una situazione complicata: sua moglie Ana sta crescendo il figlio Rudi in modo eccessivamente protettivo, mentre la sua amante Csilla ha fatto carriera in un grande panificio locale. Quando Csilla si trova nella necessità di assumere lavoratori provenienti dallo Sri Lanka, per svolgere lavori sottopagati che i locali non vogliono più fare e ottenere vantaggi dall’Unione europea, nel villaggio emergono pregiudizi sopiti da tempo ma più forti che mai. 

Alla Transilvania è associata subito la figura di Dracula e del gotico, ma questa regione è, prima di tutto, area di confine, essendoci una significativa minoranza ungherese -in passato discriminata soprattutto sotto Ceausescu-, un’altra tedesca e, infine, la minoranza Rom, discriminata da tutti. Questo è un aspetto peculiare del film per cui andrebbe visto non doppiato: le diverse lingue sono segnalate dai sottotitoli, ad esempio il magiaro è in giallo. Elementi horror non mancano, soprattutto derivati dal folclore: che cosa ha visto il figlio di Matthias nel bosco da provocargli il mutismo? Un orso? Un uomo travestito da orso con una maschera tradizionale? Oppure il corpo di un suicida appeso a un albero?

Cristian Mungiu © Song Xiangyang

La scena più importante del film è il racconto di un’assemblea cittadina, nella quale si scontrano le varie posizioni sull’accoglienza dei lavoratori stranieri nel villaggio, e che vede infine prevalere quella intollerante e razzista. Si tratta di una scena di 17 minuti, con una camera fissa che non si sposta mai, ma che non annoia e non stanca anche perché durante l’assemblea si alzano e intervengono decine di persone. 

Mungiu utilizza una tecnica da occhio indagatore, privilegiando sempre dei lunghi piani sequenza che riescono a includere il contesto, non perdendosi i dettagli. Ma il suo sguardo non si ferma appunto alle apparenze, volendo indagare la natura umana. Il film è nato da un fatto di cronaca realmente accaduto e riprende alcuni temi ricorrenti come il ritorno e la piccola comunità che si sente minacciata dall’esterno. Curiosamente ricorda un film di Giorgio Diritti, “Il vento fa il suo giro”, del 2005, anche quello un dramma di confine sulla xenofobia, nelle regioni alpine della Linguadoca. Come nel miglior cinema del reale, nei film di Mungiu non si riesce a giudicare i personaggi, anche se è inevitabile per lo spettatore immedesimarsi nel personaggio di Csilla, che tuttavia non è priva di contraddizioni. Tra le cose che funzionano meno nel film ci sono, poi, le difficoltà di finire, di concludere il racconto, nascoste da un finale non tanto aperto quanto enigmatico, e una scena madre (o padre) eccessivamente didascalica. 

“Animali selvatici” si aggiunge alla filmografia di Mungiu, confermandolo come uno dei migliori registi contemporanei, capace di raccontare storie intense e coinvolgenti attraverso lunghe concatenazioni di riprese che catturano l’attenzione dei noi spettatore. Nel complesso, il film offre una riflessione profonda sulla complessità delle relazioni umane, le sfide che le comunità affrontano nel contesto della globalizzazione e il grumo razzista che, nascosto nel profondo, contraddistingue l’Europa. 

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