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Diritti / Intervista

“Con l’estradizione di Julian Assange è in gioco l’esistenza delle nostre democrazie”

Julian Assange il 18 agosto 2014 all'interno dell'ambasciata di Londra dell'Ecuador © Cancillería del Ecuador

Il 26 marzo l’Alta corte britannica ha temporaneamente sospeso l’estradizione di Julian Assange. Chiede al governo americano di fornire, entro tre settimane, garanzie sul trattamento che verrà riservato al fondatore di Wikileaks negli Usa. “Una sentenza deludente”, secondo Stefania Maurizi, una delle massime esperte del caso

“Quei documenti sono esplosivi quanto la dinamite”. Lo ripete più volte la giornalista Stefania Maurizi riferendosi alle informazioni a cui dà la caccia, da più di dieci anni, sul caso di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, la cui estradizione verso gli Stati Uniti è stata momentaneamente rinviata dall’Alta corte britannica di Londra lo scorso 26 marzo.

Un ricerca della verità, quella di Maurizi, portata avanti a colpi di “accessi alle informazioni” rivolti a quattro governi (Stati Uniti, Regno Unito, Svezia e Australia) che a più riprese hanno ostacolato la conoscenza di tutto ciò che riguarda il caso Assange. “Non vogliono che si conosca quello che è stato fatto contro lui e la sua organizzazione -spiega la giornalista ad Altreconomia-. Se fossero semplici documenti burocratici me li darebbero. E invece ho un team di sette avvocati e avvocate che mi segue. La dice lunga sulla persecuzione del fondatore di Wikileaks”.

Una persecuzione descritta dettagliatamente nel libro-inchiesta “Il potere segreto”, pubblicato da Maurizi per le edizioni Chiarelettere nell’agosto 2021 ma ancora attualissimo (e oggi tradotto in inglese, francese, spagnolo e a breve in tedesco). Secondo Ken Loach, autore della prefazione, quel saggio “dovrebbe fare arrabbiare moltissimo il lettore” per il “prezzo terribile pagato da un uomo trattato con estrema crudeltà per aver messo a nudo un potere che non risponde a nessuno”.

Maurizi, partiamo dall’ultima pronuncia dell’Alta corte. Ci aiuta a capire che cosa hanno deciso i giudici?
SM Entro tre settimane dalla data della sentenza gli Stati Uniti dovranno fornire garanzie sul fatto che in caso di estradizione Assange non verrà condannato a morte, non sarà discriminato nel processo per il fatto di non essere cittadino americano e godrà del primo emendamento, ovvero la protezione costituzionale che negli Usa tutela la libertà di stampa. Se queste garanzie non verranno presentate entro tre settimane, l’Alta corte ammetterà l’appello di Assange contro l’estradizione e si ricomincerà con un nuovo dibattimento. Altrimenti, il 20 maggio si svolgerà un’udienza specifica per valutare gli elementi forniti dagli Stati Uniti.

È possibile avere certezze del fatto che le “garanzie” americane vengano poi mantenute?
SM No. Ed è questo il punto centrale. Un problema che denunciano da tempo le più grandi Ong che lavorano sui diritti umani, prima tra tutte Amnesty International: non esiste un modo per essere certi che le garanzie verranno effettivamente rispettate. Tra l’altro abbiamo già visto questa dinamica nel dicembre 2021, la prima volta che i giudici dell’Alta corte si erano pronunciati sulla possibilità di estradare Assange. In quel caso Washington aveva assicurato che, se estradato, Assange non sarebbe stato rinchiuso nel carcere più estremo, l’Adx Florence in Colorado, dove si trovano i criminali più pericolosi tra cui il “re” del narcotraffico El Chapo, e non gli sarebbe stato applicato il regime di detenzione più estremo: il Sam, più duro del 41-bis italiano. Queste garanzie sarebbero state rispettate salvo che, una volta arrivato sul territorio americano, il fondatore di Wikileaks non avesse compiuto azioni tali da richiedere queste misure. Insomma: una garanzia con una scappatoia esplicita. L’Alta corte in quel caso ritenne sufficienti queste “rassicurazioni” ed emise parere favorevole per l’estradizione prima nel dicembre 2021 poi, dopo l’appello della difesa, nel giugno 2023, senza neppure un’udienza. Il nuovo appello degli avvocati di Assange ha portato all’udienza pubblica di febbraio e poi alla decisione di fine marzo. Le rassicuraioni però sono semplicemente una foglia di fico.

“Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks” di Stefania Maurizi, Chiarelettere, 400 pagine, 19 euro

Quali sono i passaggi cruciali dell’ultima sentenza?
SM Ci ha molto deluso, anche se ovviamente è positivo l’aver scongiurato l’estradizione immediata. Speravamo in una sentenza a favore della protezione dei diritti umani di Julian Assange e del giornalismo e invece appare probabile che, se gli Stati Uniti forniranno quelle garanzie, l’Alta corte concederà l’estradizione e a quel punto al fondatore di Wikileaks rimarrà solo l’appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Sempre che, però, non venga trasferito prima.
Uno dei passaggi più discutibili della sentenza, e, anzi, direi proprio sconcertanti, è quello in cui la corte non contesta il fatto che alcuni testimoni protetti abbiano raccontato che la Cia aveva preparato dei piani per uccidere o rapire Julian Assange. La corte scrive, però, che questi piani risalirebbero al periodo in cui era rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador. Quindi, dal momento in cui il governo americano ha scelto la via giudiziaria per perseguire il giornalista quei rischi sono cessati. È un ragionamento che suona paradossale, perché è come dire che se un killer ha provato ad ammazzarti e poi ha smesso di provarci e ti ha invitato a casa sua, puoi fidarti ad andarci, perché lui ha cessato i suoi tentativi di eliminarti.

Lei stessa ha ricostruito proprio un tentativo di rapire Assange nel 2010 in un’inchiesta pubblicata proprio martedì 26 marzo su Il Fatto Quotidiano. Che cosa ha scoperto?
SM In realtà il piano non era di rapirlo. Dopo la pubblicazione del video “Collateral murder” da parte di Wikileaks a inizio aprile 2010, che lo trasformò da un fenomeno di nicchia, conosciuto solo da pochi, in un fenomeno internazionale, l’esercito americano pianificò di arrestarlo alla frontiera con gli Stati Uniti nel luglio di quell’anno, quando il giornalista era atteso all’importante conferenza “Hackers on planet heart” (Hope). Queste informazioni sono fondamentali anche per capire una cosa: quando Assange, a quel tempo, diceva di essere seguito, intercettato e in pericolo veniva ridicolizzato e trattato da paranoico. Oggi sappiamo che, già allora, era braccato, spiato, al centro di una grande inchiesta che vedeva coinvolti agenti dell’intelligence, lo Us Army, informatori. In altre parole: Julian Assange aveva assolutamente ragione. Altro che paranoico.

Quanto ci ha messo a ottenere queste informazioni da cui è nata l’inchiesta?
SM Il mio lavoro attraverso il Freedom of information act (Foia) va avanti dal 2015. A partire dal 2009 ho lavorato sui documenti segreti di Wikileaks relativi alle guerre in Afghanistan e Iraq, oltre che sulle schede dei detenuti di Guantanamo e su altre migliaia di cablo. Julian Assange, ed è importante capirlo, non ha fatto tutto da solo: i giornalisti, i tecnici, gli avvocati di Wikileaks, hanno dato un grande contributo, così come noi giornalisti dei media tradizionali, che abbiamo aiutato a verificare i documenti segreti. In aggiunta a questo lavoro, molto complesso, ho utilizzato lo strumento degli accessi civici generalizzati ma sono andata a sbattere contro un muro di gomma: oggi mi affianca un team di sette avvocati e avvocate che mi aiutano a contrastare l’ostruzionismo di quattro governi (America, Australia, Svezia e Regno Unito). Quei documenti sono dinamite. E ogni volta che ne riusciamo a ottenere uno questa tesi viene confermata. In Inghilterra e in Svezia, per esempio, ho scoperto che una larga parte dei documenti del caso Assange è stata distrutta dalle autorità. Chi l’ha ordinato? Perché? Che cosa c’era in quei file? Dal 2017 mi batto con i miei avvocati per scoprirlo ed è ragionevole concludere che i documenti contengono informazioni esplosive.

La giornalista Stefania Maurizi

Ci ricorda che cosa abbiamo scoperto grazie a Wikileaks?
SM I 700mila documenti pubblicati ci hanno permesso di vedere il vero volto delle guerre, dall’Afghanistan all’Iraq. Così come quello che succedeva a Guantanamo, il buco nero della democrazia americana teatro di torture e abusi mostruosi. Le rivelazioni di Wikileaks sono tra i più grandi scoop della storia del giornalismo.

In molti sostengono, però, che queste pubblicazioni abbiano messo a rischio la vita delle persone coinvolte.
SM
È dal 2010 che si ripete questa accusa. Da allora, però, gli Stati Uniti non hanno mai portato un caso di persona uccisa, ferita o incarcerata a causa di informazioni rivelate da Wikileaks. È stata l’amministrazione Obama ad aprire l’inchiesta su Julian Assange e Wikileaks nel 2010 e l’ha tenuta aperta per anni, senza mai incriminarli. Vogliamo credere che se avessero avuto in mano nomi di persone uccise, ferite, incarcerate a causa delle pubblicazioni, dai cablo ai documenti sulle guerre, non li avrebbe rinviati a giudizio? Ovviamente sì. E non è che non cercò esempi di persone danneggiate: creò una task force con oltre cento analisti dell’intelligence, guidata dal brigadier general Robert Carr. Nel 2013 Carr fu chiamato a testimoniare al processo, davanti alla corte marziale, di Chelsea Manning, la fonte che aveva passato i documenti segreti del governo americano per cui oggi Julian Assange rischia 175 anni di prigione. Ebbene il brigadier general testimoniò che nessuno era stato ucciso a causa di quelle pubblicazioni. Questa e altre accuse sono parte di una campagna che ha un obiettivo preciso.

Quale?
SM
Demonizzare Assange. Fare in modo che l’opinione pubblica lo consideri un poco di buono, uno che ha compiuto azioni così irresponsabili da aver messo a rischio vite umane. La campagna di distruzione della sua reputazione ha visto un susseguirsi di accuse come quella di avere le mani sporche di sangue, di essere uno stupratore, quando invece non è mai stato incriminato per stupro; poi di “essere a letto” con la Russia, ma che cosa ha fatto Mosca per Julian Assange? Infine, l’accusa di “essere a letto” con Trump, quando invece è proprio la sua amministrazione ad averlo incriminato.

Che cosa sappiamo sull’Italia grazie ai cablo?
SM Abbiamo le prove, ad esempio, delle pressioni americane per garantire l’impunità degli agenti della Cia che nel 2003, in collaborazione con il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (Sismi) italiano, hanno rapito nel cuore di Milano, in pieno giorno, Abu Omar, poi trasferito in Egitto dove è stato torturato brutalmente. Questo è il tipo di operazioni che avvenivano nel Cile di Pinochet e che avvengono ancora oggi nelle dittature: sono incompatibili con lo Stato di diritto. Le dittature possono farti sparire nel cuore della notte, le democrazie non devono comportarsi così. Grazie ai cablo di Wikileaks abbiamo le prove delle pressioni della diplomazia americana non sui magistrati italiani, perché gli americani li vedevano come “drasticamente indipendenti”, ma sull’anello debole del nostro Paese: i politici. E di fatto le pressioni hanno raggiunto il loro scopo. Sebbene l’Italia sia stata l’unica al mondo a individuare i responsabili della rendition della Cia e a ottenere condanne definitive per tutti i 26 americani -quasi tutti agenti della Cia- l’intervento degli Stati Uniti sui politici italiani di destra e sinistra, da Ignazio La Russa a Enrico Letta, ha avuto come risultato quello di ottenere per loro l’impunità: nessuno è finito in carcere. Tutti potevamo immaginare queste pressioni, ma è diverso avere le prove che, senza Wikileaks, probabilmente sarebbero arrivate tra cinquant’anni con la desecretazione dei documenti. Ma ormai a quel punto non sarebbero interessate a nessuno, se non agli storici di professione. Altre rivelazioni assolutamente cruciali sono quelle su come il nostro Paese, dopo l’11 settembre, è stato trasformato nella piattaforma di lancio delle guerre americane, dal Nord Africa al Medio Oriente all’Asia, con basi che svolgono un ruolo chiave nella macchina da guerra americana: da Vicenza, con la 173esima Brigata aviotrasportata, a Sigonella, con la guerra segreta dei droni.

“Nei regimi autoritari, i giornalisti non possono rivelare i crimini di Stato e se lo fanno finiscono in galera a vita o ammazzati. In democrazia, invece, deve essere possibile. Ecco perché questo caso dobbiamo assolutamente vincerlo: perché non deciderà solo la vita di Julian Assange, deciderà anche la nostra”

Qual è la posta in gioco del “caso Assange”?
SM
Non esiste democrazia se i cittadini non hanno la possibilità di conoscere che cosa fa il loro Stato con i loro soldi e nel loro nome. Ecco perché con questo caso siamo a un punto di svolta: se permettiamo allo Stato di mettere in galera a vita chi ha rivelato la criminalità di Stato ai più alti livelli, come i crimini di guerra e le torture, la democrazia muore e imbocchiamo una via autoritaria, magari gradualmente autoritaria, ma indubbiamente tale.

Che cosa intende?
SM
Senza Julian Assange e Wikileaks non avremo mai saputo quelle informazioni cruciali sulla criminalità di Stato. Sarebbero rimaste blindate dal segreto di Stato, un segreto che, in questo caso, è abusato perché non viene usato in modo legittimo per proteggere la nostra sicurezza ma per coprire crimini gravissimi e impedire che la popolazione li scopra e ne chieda conto al governo. Senza sapere come opera il potere ai più alti livelli, i cittadini non hanno strumenti per prendere decisioni consapevoli. Nei regimi autoritari, i giornalisti non possono rivelare i crimini di Stato e se lo fanno finiscono in galera a vita o ammazzati. In democrazia, invece, deve essere possibile. Ecco perché questo caso dobbiamo assolutamente vincerlo: perché non deciderà solo la vita di Julian Assange, deciderà anche la nostra.

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