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Economia / Approfondimento

Come l’industria dei videogiochi spreme i consumatori. Tra azzardo e pratiche scorrette

Dalle “loot box” virtuali acquistabili all’interno dei videogiochi e contenenti ricompense, ai “dark pattern”, strategie manipolatorie utilizzate per spingere gli utenti ad agire contro i loro interessi. Ricerche indipendenti mostrano come i produttori realizzano profitti da capogiro anche a spese di utenti minorenni

© Norwegian Consumer Council - Hanne Fossaa Eriksen

Alcuni dei principali produttori di videogiochi sono stati accusati dalla società civile e dalle associazioni di tutela dei consumatori di utilizzare pratiche scorrette nei confronti dei loro utenti, anche minorenni. Tra le aziende interessate figurano le statunitensi Electronic Arts (Ea), che nel 2021 ha registrato un fatturato di quasi sette miliardi di dollari, e Activision, che nello stesso periodo ha fatto segnare ricavi per 8,83 miliardi di dollari.

Al centro delle accuse ci sono le cosiddette loot box (cioè le scatole bottino), pacchetti virtuali acquistabili all’interno di un videogioco e contenenti ricompense casuali utilizzabili all’interno dello stesso gioco. La vendita di questi contenuti ha fatto raccogliere nel 2020 oltre 15 miliardi di dollari ai produttori. Secondo il rapporto Insert coin pubblicato a metà 2022 dal Norwegian consumer council (Ncc), un organismo indipendente che assiste i consumatori in controversie specifiche, le loot box avrebbero similitudini con il gioco d’azzardo. Dalla casualità dei premi proposti all’impossibilità di ottenere un rimborso degli acquisti, dalla mancata trasparenza sull’algoritmo che genera le ricompense alla difficoltà di stabilire la spesa minima necessaria per ottenere un premio desiderato.

Secondo la ricerca, infatti, nel popolare videogioco di calcio FIFA 22 in media un giocatore avrebbe dovuto spendere in loot box 1.400 euro per ottenere con certezza uno qualsiasi degli 11 calciatori più “rari” e ben 14.500 se avesse puntato a un campione specifico. Inoltre le loot box farebbero uso di meccaniche simili a quelle delle slot machine o di altre macchine d’azzardo, come l’utilizzo di “stimoli visivi e sonori associati alla partecipazione e alla vincita” oppure l’elevata velocità di gioco.

Tuttavia questi oggetti possiedono delle caratteristiche che possono rendere difficile il loro inserimento nella categoria del gioco d’azzardo, come l’impossibilità di vendere o scambiare i premi ottenuti. “Questi oggetti esistono all’interno di un mercato chiuso e ciò significa che nessun guadagno reale può essere estratto. La maggior parte delle aziende non fornisce un metodo per vendere o scambiare i premi vinti e in molti casi queste operazioni comportano una violazione dei termini di servizio”, scrivono gli autori di Insert coin.

Non è tutto. Secondo la ricerca “When the cat’s away: techlash, loot boxes, and regulating ‘dark patterns’ in the video game industry’s monetization strategies” pubblicata dall’Università del Colorado nel febbraio 2021, le “scatole bottino” non sarebbero altro che un esempio di dark pattern, strategie manipolatorie utilizzate per spingere gli utenti ad agire contro i loro interessi. Lo scopo della ricerca è quello di esaminare l’uso di strategie di manipolazione all’interno dei videogiochi e proporre una normativa per regolamentare questi modelli e proteggere i consumatori da predatorie pratiche di monetizzazione. “Piuttosto che cercare di inserire le loot box in una definizione legale di gioco d’azzardo sarebbe molto meglio che le parti discutessero il loro ruolo nel contesto dei dark pattern. Per proteggere i consumatori è necessario creare infatti un modello di regolamentazione che ne riconosca l’esistenza e la regolamenti”, riporta la ricerca.

© Sean Do

I dark pattern sono diffusi su piattaforme social, negozi online e possono essere utilizzati, ad esempio, per convincere gli utenti ad abbonarsi a un servizio a pagamento e poi ostacolarne la cancellazione. “Gli utenti hanno trovato esempi di dark pattern sui siti web ufficiali di Skype, Facebook, Amazon e Uber. Il social media LinkedIn è stato persino oggetto di un’azione legale in quanto il sito inviava mail automatiche ai contatti facendo credere che provenissero dagli utenti stessi. Il 5 ottobre 2015 LinkedIn ha pagato un risarcimento di 13 milioni di dollari per le sue pratiche ingannevoli”, si legge ancora nella ricerca dell’Università del Colorado.

Nel marzo di quest’anno il Comitato europeo per la protezione dei dati (European data protection board, Edpb) ha pubblicato una serie di linee guida rivolte sia ai progettisti delle piattaforme social sia ai loro utenti su come valutare ed evitare i design ingannevoli e in potenziale violazione del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr). Secondo il Comitato “I dark pattern mirano a influenzare i comportamenti degli utenti e possono ostacolare la loro capacità di ‘proteggere efficacemente i propri dati personali e di fare scelte consapevoli’, ad esempio rendendoli incapaci di ‘dare un consenso informato e libero’”. Già nel 2013 la ricerca “Dark pattern in the design of games” (DePaul University, Gothenburg University, The Interactive Institute e
University of California) aveva messo in luce l’esistenza di queste strategie all’interno dei videogiochi e ne aveva proposto una classificazione.

In sostanza i dark pattern utilizzati all’interno di videogiochi possono dividersi in tre categorie a seconda del campo verso il quale sono indirizzati se temporale, monetario o sociale. Il primo campo, detto temporale, riguarda tutte le pratiche volte a far spendere a un utente più tempo di quanto sarebbe intenzionato a fare o a collegarsi secondo orari e tempistiche stabilite dagli sviluppatori. Questo viene fatto, ad esempio, inserendo ricompense giornaliere che spingono l’utente a collegarsi ogni giorno e lo “puniscono” se perde un appuntamento. Oppure vengono inseriti dei timer interni che limitano o regolano la possibilità di accedere a certe funzioni o al gioco stesso come nel popolare puzzle game “Candy crush”. Nel gioco, di proprietà di Activision dal 2015, l’utente possiede un numero limitato di “vite” e una volta esaurite deve attendere diverse ore o altrimenti comprarle. Pagare per ottenere benefici o per saltare tempi di attesa è una strategia che rientra nella seconda categoria di dark pattern: quella monetaria. Si pensi alla “monetizzazione della competizione”, dove i giocatori che hanno speso per acquistare determinati oggetti o loot box hanno un vantaggio nelle sfide contro giocatori che non lo hanno fatto. Alcuni videogiochi presentato al loro interno un vero e proprio negozio attraverso il quale effettuare spese senza abbandonare la partita. Le già esaminate loot box sono l’esempio più evidente e contestato. Un ulteriore esempio è rappresentato da una valuta interna al gioco, acquistabile con denaro reale e quindi utilizzata per gli acquisti. Il ricorso a una valuta fittizia per gli acquisti spesso finisce per nascondere la reale spesa all’utente in quanto spesso manca un paragone diretto con la valuta reale. Il Ncc porta l’esempio del popolare simulatore di calcio FIFA, sviluppato appunto da Ea, dove i giocatori che hanno speso per poter inserire in squadro dei calciatori più forti avranno un vantaggio nelle partite contro chi non lo ha fatto.

“Nel 2021 Electronic Arts ha ricavato oltre 1,62 miliardi di dollari solo dagli acquisti in-game avvenuti in FIFA 21 (l’edizione del gioco pubblicata a fine 2020, ndr), pari al 29% dell’intero fatturato della società”. La terza categoria riguarda i cosiddetti dark pattern sociali che spingono gli utenti a invitare amici e contatti in cambio di vantaggi. In alcuni casi si parla di “imitazione” se il software è in grado di inviare inviti in modo autonomo agendo al posto o addirittura facendo sembrare questa azione come opera dell’utente in modo simile a quanto accadeva con gli utenti di Linkedin.

Esistono diverse proposte di regolamentazione ma tutte condividono una posizione: la necessità di un controllo che sia esterno alle aziende. “L’industria dei videogiochi ha anche un interesse intrinseco a sfruttare il più possibile il settore. Il modo migliore per garantire il benessere dei consumatori è quello di riconoscere la necessità di una supervisione governativa dell’industria”. La proposta del Ncc propone quindi di concentrarsi da un lato sulle restrizioni relative alle loot box, chiedendo che siano escluse da videogiochi rivolti a minorenni, e dall’altro sulla trasparenza, permettendo un accesso agli algoritmi da parte dei ricercatori e obbligando il confronto tra la valuta virtuale e la sua controparte reale.

“Se gli altri rimedi non risolvono i problemi, si può prendere in considerazione il divieto delle loot box a pagamento”, concludono i curatori del rapporto del Ncc. Un’altra strategia, a cui abbiamo già accennato, è quella di regolamentare direttamente i dark pattern. “Le loot box non sono altro che una combinazione di meccaniche, come l’utilizzo di valute premium o la monetizzazione della competizione”. Si evidenzia quindi che le normative precedentemente proposte dagli Stati Uniti per limitare queste pratiche predatorie siano fallite proprio perché non consideravano i dark pattern e mancavano del lessico specifico per riferisci ad essi. Una legge sui dark pattern dovrebbe “proibire i modelli dannosi; creare organismi di standard professionali e commissioni di revisione indipendenti; richiedere il consenso informato per qualsiasi studio comportamentale o psicologico che coinvolga i dati degli utenti e vietare le interfacce utente progettate per favorire l’uso compulsivo nei bambini”, sono le raccomandazioni dell’Università del Colorado.

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