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Cibo e sfruttamento in Lombardia. Chi paga il prezzo nella filiera agroalimentare
Nella Regione il comparto vale circa 14 miliardi di euro ed è caratterizzato da “lavoro grigio”, presenza di cooperative spurie e applicazione di contratti diversi da quelli propri di settore. L’associazione “Terra!” ha prodotto un report d’inchiesta su tre filiere chiave: melone, insalate in busta e suini. Ecco che cosa è emerso
Con i suoi 14 miliardi di euro di valore della produzione agroalimentare la Lombardia è la prima Regione italiana del comparto ma al tempo stesso è anche quella in cui il caporalato assume “forme di sfruttamento più sofisticate rispetto a quelle del Sud Italia”. La denuncia è contenuta nel report “Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia” curato dall’associazione “Terra!” e presentato a Milano il 5 luglio. Ha indagato lo sfruttamento lavorativo all’interno di tre filiere particolarmente rilevanti: quella dei meloni (in provincia di Mantova), quella delle insalate in busta (nelle provincie di Bergamo e Brescia) e quella dei suini (nelle province di Mantova e Cremona).
“In Lombardia non abbiamo trovato caporali ma abbiamo riscontrato forme di grave sfruttamento a danno dei lavoratori -ha spiegato Fabio Ciconte, direttore di ‘Terra!’ durante la presentazione del rapporto-. Abbiamo la conferma di quanto il lavoro grigio in agricoltura sia praticamente la regola. Le cooperative spurie, molto usate nella produzione dei meloni, rappresentano le nuove forme di sfruttamento, i contratti multiservizi sono la scorciatoia che in molti usano nel settore dei suini. Per arrivare infine ai turni estenuanti della cosiddetta ‘quarta gamma’, dove i ritmi industriali costringono gli operai a non fermarsi mai”.
Le forme di sfruttamento monitorate e denunciate nel rapporto sono diverse tra loro -dalle citate cooperative spurie ai contratti pirata, al lavoro grigio- e permettono di aggirare i controlli mostrando una parvenza di legalità. A preoccupare gli autori del rapporto è l’espansione del “lavoro grigio” che nella maggior parte dei casi si basa su un tacito (e spesso obbligato) accordo tra il lavoratore e l’imprenditore agricolo: quest’ultimo si assicura un lavoro continuativo per tutto l’anno ma non registra mai più di 180 giornate (soglia minima per accedere alla disoccupazione). Il dipendente potrà quindi godere degli ammortizzatori sociali previsti grazie a un numero di giornate registrate che però, spesso, è di molto inferiore a quelle effettivamente svolte, mentre per quelle che eccedono sarà retribuito in nero.
“Uno degli elementi critici è la corretta remunerazione del prodotto, pagato spesso meno del dovuto dalle catene della Grande distribuzione organizzata (Gdo). E a farne le spese è la parte agricola che si vede decurtato il proprio guadagno e, di conseguenza, taglia i costi”, riporta “Terra!” nel rapporto. In cui evidenzia la necessità di guardare all’insieme della filiera agricola per leggere il fenomeno del caporalato nel suo complesso: “La frammentazione degli agricoltori, il malfunzionamento delle organizzazioni di produttori, i meccanismi di approvvigionamento della Gdo, il modello produttivo. Tutti elementi che rendono la filiera agricola sempre più debole e poco competitiva, favorendo l’insorgere di fenomeni distorsivi come lo sfruttamento della forza lavoro”.
Il primo approfondimento contenuto nel report è quello dedicato ai meloni: tra maggio e ottobre la provincia di Mantova ne produce circa 90mila tonnellate (su un totale nazionale pari a 598mila tonnellate). Una produzione “d’eccellenza” dietro la quale però si celano spesso diverse (e sempre più sofisticate) forme di caporalato e sfruttamento dei lavoratori. “In questi territori l’intermediazione è svolta da cooperative spesso fittizie, con sede anche in Emilia-Romagna o in Veneto. Queste agiscono o in autonomia rispetto all’azienda, elargendo paghe da fame, oppure in connivenza con essa. Un danno per un settore di eccellenza”, denuncia l’organizzazione.
Quelle prese in esame sono cooperative che vengono definite “senza terra” gestite prevalentemente da cittadini stranieri che gestiscono i propri connazionali e operano come “contenitori” e fornitori di manodopera. Lo sfruttamento, generalmente, avviene in due modi: le aziende agricole versano il corrispettivo previsto dal contratto provinciale di categoria alla cooperativa ma questa a sua volta paga uno stipendio inferiore ai lavoratori, oppure c’è connivenza tra le due realtà imprenditoriali ai danni dei braccianti che ricevono un salario pari a circa cinque euro all’ora a fronte dei 9,44 euro previsti per la raccolta dei meloni.
La seconda filiera analizzata è quella delle insalate in busta (la cosiddetta “quarta gamma”) caratterizzata dalla forte integrazione tra produzione agricola e trasformazione. Un processo fortemente industrializzato in cui la distribuzione ha modellato la filiera a sua immagine e somiglianza dettando ritmi e tempi della produzione: gli ortaggi sono lavorati e imbustati entro 48 ore dalla raccolta nei campi e spediti alle piattaforme logistiche della Gdo in modo tale da permettere al consumatore di trovare ogni giorno prodotti freschi. A fronte di una domanda di questo tipo il ciclo di produzione e imbustamento è continuo e la catena di approvvigionamento non deve mai spezzarsi.
Ma quali sono gli impatti sui lavoratori? “Molto del lavoro ‘agricolo’ si svolge all’interno delle serre, con ritmi estremamente serrati e precisi. La costante che abbiamo rintracciato nel corso del lavoro di inchiesta è che si tratta di un lavoro estenuante, massacrante”, si legge nel report. La flessibilità e il precariato della manodopera sono funzionali al funzionamento di questa filiera che coinvolge in larga parte cittadini Sikh che vivono nei pressi dei centri produttivi. Diverse aziende, soprattutto nei periodi di massima intensità, appaltano intere fasi della produzione a cooperative e agenzie per il lavoro esterne che applicano contratti diversi ai dipendenti: da quello agricolo a quello del commercio, da quello della piccola e media industria a quello dell’industria alimentare.
Le testimonianze degli uomini e delle donne che quotidianamente coltivano, raccolgono, lavano e imbustano le insalate che finiscono ogni giorno sui banconi dei supermercati restituiscono l’immagine di un lavoro mal pagato, ripetitivo, usurante e spesso frenetico per tenere il passo con gli ordini dei clienti. Amira, una delle addette intervistate, prepara 500 colli al giorno lavorando in un capannone dove le temperature non superano i 14 gradi negli ambienti di lavoro e i 7 gradi nelle celle di conservazione. “Mi si intorpidiscono le dita”, ha raccontato la donna evidenziando come la divisa fornita dall’azienda non sia sufficiente a proteggerla dal freddo.
La terza e ultima filiera è quella dei suini, un comparto particolarmente rilevante dal momento che la Lombardia ospita circa quattro milioni di capi (il 50% del totale nazionale). Si tratta di un settore estremamente frammentato -diviso in tante piccole imprese di allevatori, macellatori e trasformatori- in cui per mantenere bassi i costi di produzione si fa ampio ricorso -di nuovo- all’esternalizzazione del lavoro a cooperative o agenzie di somministrazione. “Nei macelli, però, si vedono spesso lavoratori dell’azienda e della cooperativa svolgere le stesse identiche mansioni, anche se non potrebbero. Gli effetti del sotto-inquadramento contrattuale della manodopera, una costante specie quando si tratta di migranti, perché più ricattabili”, si legge nel rapporto che mostra come i contratti più diffusi siano quello dei multiservizi o quello delle pulizie, più convenienti del contratto collettivo nazionale dell’industria agroalimentare.
Il report di “Terra!” evidenzia poi anche un’elevatissima incidenza degli stranieri (indiani, cinesi, ghanesi, cittadini di diversi Paesi dell’Est Europa) che nel comparto pesano per quasi il 50% della forza lavoro impiegata. Un dato esorbitante se si pensa che nell’intero comparto della macellazione la quota di lavoratori immigrati si ferma al 30% e scende al 10% se si prendono in considerazione tutti i comparti produttivi.
Yamir (nome di fantasia) lavora in un importante macello del cremonese ed è stato assunto con contratto multiservizi che prevede “servizi ausiliari alle produzioni industriali fuori linea” o “servizi di manutenzione di impianti industriali”. Lui invece lavora le parti di maiale, proprio come i dipendenti assunti direttamente dallo stabilimento (che hanno il contratto dell’industria alimentare), dalle quattro di mattina fino all’ora di pranzo. “Facciamo tutto con le mani, questa è l’unica differenza, ma siamo su una linea di lavorazione del maiale, non sulle pulizie”, ha riferito Yamir ai curatori dell’inchiesta. A fine mese la sua busta paga è di circa mille euro mentre chi, prima di lui nella catena, disossa l’animale con la lama, prende fino a 500 euro in più alla fine del mese.
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