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“Chiusi a chiave”: storie e illustrazioni sulla detenzione dei migranti in Europa
Il report “Locked up” curato dalla Piattaforma per la cooperazione internazionale sui migranti senza documenti dà voce a 16 testimonianze di persone in transito trattenute nei centri di diversi Paesi europei. Un modo per dar forma e colore all’incubo di vite isolate dalla quotidianità e dagli affetti. E per denunciare una politica inefficace
Ali, quindicenne afgano in fuga dai Talebani, in Grecia è stato rinchiuso in un centro di detenzione per migranti perché non aveva i documenti in regola. È stato messo in una cella senza finestre, da solo. Non poteva nemmeno comunicare con la famiglia: “Hanno pensato che fossi morto”. Hamid, invece, è tunisino. È arrivato a Lampedusa con una dolorosa ferita alla gamba causata da un colpo d’arma da fuoco e ha trascorso 202 giorni in nel Centro permanente per il rimpatrio (Cpr) di Torino prima di essere sottoposto a un intervento chirurgico adeguato.
Quelle di Ali e Hamid sono due delle sedici storie raccontate in “Locked Up. Stories from immigration detention in Europe”, un volume che raccoglie le testimonianze di persone che, come indica il titolo, sono state “rinchiuse” nei centri di detenzione in diversi Paesi dell’Unione europea. Ogni storia è accompagnata da un’illustrazione, ciascuna delle quali è firmata da un artista diverso: sedici immagini che danno forma e colore all’incubo di vite spezzate e isolate dalla quotidianità e dagli affetti.
“L’obiettivo di questo lavoro è quello di non dimenticare che le politiche migratorie, spesso affrontate in termini astratti, hanno un impatto violento sulla vita delle persone”, spiega Marta Gionco di Picum, la Piattaforma per la cooperazione internazionale sui migranti senza documenti di cui fanno parte anche le altre realtà che hanno curato il volume: l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), l’Ong greca Arsis che sostiene i giovani in difficoltà, la Move Coalition che riunisce una serie di realtà in Belgio il Meldpunt Vreemdelingendetentie centro olandese per la documentazione sulla detenzione per migranti.
“Alla base di queste restrizioni non c’è nessuna accusa di tipo penale, ma solo una contestazione di natura amministrativa -spiega l’avvocato Maurizio Veglio, socio di Asgi-. Il fatto che una persona possa essere privata della libertà personale, un diritto umano fondamentale, sulla base di una sanzione amministrativa è una ferita nello stato di diritto”. Ci sono poi altri elementi che rendono la detenzione in questi centri un’esperienza traumatica: tempi di permanenza indefiniti, spesso lunghi (in Italia fino a quattro mesi con la possibilità di arrivare a un anno per i richiedenti asilo), le condizioni di vita inadeguate, con grandi stanze dormitorio o celle di isolamento per le persone a rischio suicidio, le difficoltà a comunicare con l’esterno.
“Questi uomini e queste donne possono essere detenuti dopo essere stati fermati per non aver pagato il biglietto del tram o durante un controllo di polizia mentre vanno a lavorare”, aggiunge Gionco. Come è successo a Omar che, dopo aver vissuto per quattro anni in Olanda, è stato rinchiuso per quattro mesi perdendosi la nascita del figlio. “Non avrò mai una fotografia con lui appena nato”, racconta l’uomo.
L’esperienza della detenzione, si legge in “Locked up”, produce gravi ripercussioni sulla vita delle persone: problemi di salute, depressione, maggiore incidenza dei suicidi tra chi ha vissuto questa esperienza. “In questi centri il ricorso agli psicofarmaci è molto diffuso. I più vulnerabili commettono spesso atti di autolesionismo”, spiega Veglio. Fino a conseguenze estreme: Moussa Balde, 22 anni, originario della Guinea, nel 2021 si è tolto la vita in una cella di isolamento del Cpr di Torino. Dieci giorni prima era stato vittima a Imperia di un’aggressione razzista da parte di tre uomini. Uscito dall’ospedale è stato portato in un commissariato e poi detenuto in attesa di valutare la possibilità di un rimpatrio.
Le storie riportate in “Locked Up” arrivano anche da Grecia, Belgio e Olanda. Secondo una stima del Global detention project, ogni anno in Europa sono più di centomila le persone che vivono questa esperienza. “Quasi tutti gli Stati dell’Unione europea applicano la detenzione a migranti in situazione irregolare. Le condizioni di vita variano da Paese a Paese, e anche da centro a centro, perché il quadro normativo è poco chiaro e i direttori delle strutture godono di molta autonomia -sottolinea Gionco-. Gli standard minimi fissati dalla Direttiva rimpatri dell’Ue non sempre vengono rispettati, le verifiche sono scarse a causa delle difficoltà di accesso e in molti Stati vengono detenuti anche minori o persone con problemi psicologici senza alcuna valutazione preventiva”.
Oltre a essere dannosa per la salute delle persone, la detenzione è considerata inefficace anche per le procedure di rimpatrio o espulsione. “La possibilità di procedere dipende soprattutto dalla disponibilità dei Paesi d’origine a identificare le persone trattenute nei centri e a fornire i documenti di viaggio -spiega Veglio-. In Italia, per esempio, avviene solo in un caso su due. Se infine consideriamo che il numero di rimpatri successivi alla detenzione è risibile rispetto a quello della popolazione presente irregolarmente sul territorio capiamo che si tratta di uno strumento simbolico. Che però produce danni reali sulla vita delle persone”. Come è successo Nadra, fuggita dall’Afganistan a 16 anni e che oggi vive in Belgio: suo marito, anch’egli afgano, è stato rinchiuso in un centro di detenzione mentre lei era incinta. La donna è rimasta da sola per settimane ad affrontare la gravidanza, il lavoro, lo studio all’università senza sapere se l’uomo sarebbe stato espulso e allontanato per sempre da lei. Alla fine, il marito di Nadra è stato rilasciato in tempo per assistere alla nascita della bambina, ma ancora oggi entrambi si trascinano depressione e incubi ricordando quei giorni.
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