Economia / Attualità
L’egemonia debole di Cassa depositi e prestiti: appassionata alla finanza e sempre più lontana dai territori
Inchiesta sull’istituto fondato nel 1850 per supportare lo Stato e gli enti locali. Una missione sempre più sbiadita. Dalla Borsa alle autostrade, Cdp si muove con tanti capitali ma poche competenze e il rischio è di agevolare interessi privati. Il tutto mentre comuni e province attendono una vera rinegoziazione dei mutui
Che cosa hanno in comune il marchio di moda “Liu Jo” e il nuovo ospedale di Carpi, in provincia di Modena? O la società Borsa Italiana con lo sviluppo territoriale del Comune di Catanzaro o con il rafforzamento del colosso delle carni bovine Inalca (Gruppo Cremonini)? Apparentemente nulla, sostanzialmente un acronimo: Cdp. Si tratta infatti di alcuni “destinatari” degli interventi della Cassa depositi e prestiti (cdp.it), fondata a Torino nel 1850 quale “luogo di fede pubblica” per supportare lo Stato e gli enti locali attraverso la gestione del risparmio postale. A 170 anni da quell’impegno di pubblica utilità -e a 17 dalla trasformazione in società per azioni-, Cdp è un colosso egemone e onnipresente nelle più disparate operazioni finanziarie italiane. Forte di un risparmio postale in gestione per oltre 271,7 miliardi di euro proveniente da 27 milioni di cittadini italiani e di disponibilità liquide per 181,8 miliardi (dati al 30 giugno 2020), la “Cassa” si presenta oggi come la soluzione per qualsiasi vertenza. Per citare alcuni “casi” (ancora aperti): Autostrade per l’Italia, Alitalia, appunto Borsa Italiana. Chi ne promuove le gesta sono innanzitutto i suoi azionisti: quello pubblico, ovvero il ministero dell’Economia (con l’82,77% delle azioni), e quello privato, cioè 62 fondazioni bancarie (al 15,93%; l’1,30% del capitale di Cdp è costituito da azioni proprie del gruppo).
Al di là della retorica -“campione nazionale”, “banca pubblica di sviluppo”, “nuova Iri” (l’Istituto per la ricostruzione industriale, ndr)- la trasformazione del perimetro d’azione di Cdp verso il settore privato è problematica. Il finanziamento degli enti locali ha infatti ceduto sempre di più il passo alle attività prevalentemente finanziarie a sostegno delle infrastrutture, delle imprese (in particolare quotate in Borsa ma non solo, si veda lo schema a pag. 13), del settore immobiliare e alberghiero di lusso, della gestione di “grandi partecipazioni” (Eni, Terna, Fincantieri, Open Fiber, Snam, Sace, Tim, Poste italiane, per citarne alcune) e della cooperazione internazionale. Il “peso” del privato è confermato dal quadro delle risorse mobilitate nel primo semestre di quest’anno dal Gruppo. Su 14,6 miliardi di euro, 12,3 miliardi era in capo a “Cdp Imprese” (84%), 2,2 miliardi a “Cdp Infrastrutture, Pubblica amministrazione e territorio” (15%) e appena 45 milioni di euro a “Cdp cooperazione” (0,3%). Per il professor Marco Meneguzzo, ordinario di Economia aziendale all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e già coordinatore scientifico del “Laboratorio finanza innovativa” presso il dipartimento Funzione pubblica, quei dati sono l’ultima conferma del “disinteresse” di Cdp “a far ripartire in modo innovativo la finanza degli enti locali del nostro Paese”. È un processo in corso da decenni che l’ha vista smettere i panni di “monopolista dei prestiti ai Comuni e applicare tassi di interesse non certo agevolati”, come spiega Meneguzzo, contribuire a esporre gli enti territoriali a “sfortunate operazioni di ristrutturazione dei debiti con i derivati” per poi finire a “giocare a fare la banca d’investimento”.
Sotto il profilo strettamente contabile, i risultati sembrerebbero dare ragione al consiglio di amministrazione (l’attuale è in carica da metà 2018) e ai vertici di Cassa depositi e prestiti (Giovanni Gorno Tempini è il presidente, Fabrizio Palermo l’amministratore delegato). Per la Corte dei conti, infatti, “i risultati del 2019 confermano il ruolo svolto dal Gruppo Cassa depositi e prestiti a sostegno dell’economia italiana, nonostante un contesto macroeconomico che ha risentito della limitata crescita economica a livello mondiale e che si è ulteriormente aggravata nel 2020 a causa della diffusione della pandemia da Covid-19”. Qualche numero: utile netto consolidato attestatosi a 3,4 miliardi di euro, attivo pari a 448,7 miliardi di euro, solidità patrimoniale “invariata” a 36,1 miliardi di euro nel 2019, dividendi distribuiti agli azionisti a fine anno per 2,1 miliardi di euro.
Alessandro Messina, direttore generale di Banca Etica (bancaetica.it), suggerisce un punto di vista diverso rispetto a quello dei magistrati contabili. “In un’ottica finanziaria non c’è dubbio che l’attuale gestione di Cassa depositi e prestiti garantisca risultati -riflette- ma il punto che come cittadini dovremmo porci è un altro: quali sono i ritorni sociali e ambientali di quelle scelte? Qual è la politica industriale che si sta perseguendo? Quali le ragioni di fondo e quale l’indirizzo pubblico?”. L’analogia con l’Iri non convince Messina: “L’Iri, con tutti i limiti noti, era un luogo dove si facevano e si guidavano le politiche industriali. Cdp invece è rimasta una ‘banca che non è una banca’, una cassaforte ‘efficiente’ ma lontana dal territorio e dall’economia reale (il Gruppo in tutto conta complessivamente appena 2.243 dipendenti, ndr) oltreché caratterizzata da filosofie gestionali incompatibili con una vera responsabilità pubblica del policy maker”. Il “caso” di Autostrade per l’Italia (Aspi) -che a metà ottobre è ancora lontano dall’essere risolto- è un esempio. “Che cosa è successo dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova nell’agosto 2018? -si domanda Messina-. Il governo, tramite il ministero dell’Economia, ha annunciato che le autostrade dovessero diventare pubbliche. Peccato però che si sia limitato a dare al ‘banchiere-Cdp’ solo l’input. E quest’ultima si è mossa e si muoverà come è capace di fare, essendo di fatto un intermediario di secondo livello: farà finanza, comprando e vendendo azioni, mettendo i capitali a disposizione di qualcun altro. Privato”.
“Cdp è rimasta una ‘banca che non è una banca’, una cassaforte ‘efficiente’ ma lontana dal territorio e dall’economia reale” – Alessandro Messina (Banca Etica)
All’orizzonte c’è quella che per il dg di Banca Etica è una “interessante e preoccupante intersezione tra populismo e finanziarizzazione”. Il primo mostra i forconi, la seconda risponde (solo) con i capitali. La conclusione allora è che le autostrade debbano rimanere in mano a concessionari predatori e che lo Stato sia ridotto a spettatore? “No -replica Messina- ma se la mano pubblica vuole davvero riprendere controllo e strategia di quell’infrastruttura perché non lo fa attraverso Anas, società che avrebbe le competenze per farlo? Se vuole lavorare sui trasporti perché non si rivolge a Ferrovie dello Stato? Allocare su Cassa depositi e prestiti responsabilità di indirizzo e controllo cui non sa, perché non può, adempiere e che già non hanno funzionato addirittura nel caso del depauperato ministero delle Infrastrutture, per rimanere al caso delle autostrade, è una tattica dall’esito segnato”. E l’epilogo è tutto a favore del privato. “Per come oggi è strutturata Cdp, ricca di competenze finanziarie ma senza know-how industriale, ingegneristico, specialistico del settore, sembra molto probabile che, passata la bolla populista, si dovrà rivolgere a un nuovo concessionario, avendo poche risorse per evitare che questo la ‘catturi’”.
Con una partecipazione del 26% in Eni, Cassa depositi e prestiti potrebbe influenzare le politiche del colosso fossile. Ma questo non accade, denuncia Re:Common
Anche Antonio Tricarico, responsabile del programma Nuova finanza pubblica dell’associazione Re:Common (recommon.org), attivista dagli anni 90 della Campagna per la riforma della Banca Mondiale e autore con Luca Martinelli del libro anticipatore “La Posta in gioco” (Altreconomia, 2013), è molto freddo. Rimprovera allo Stato di usare Cdp secondo quella che chiama la “logica Eni-Enel”. Tradotto? “È la politica miope del dividendo, dove la partecipazione pubblica non è finalizzata a una prospettiva di trasformazione ma di mero incasso, senza obiettivi, senza politica industriale, senza coerenza”. In che senso? “Istituzioni di rilievo e interesse pubblico dovrebbero orientare, attuare e pretendere con modalità trasparenti politiche in linea rispetto agli obiettivi internazionali che si è dati, penso al tema della lotta ai cambiamenti climatici”, continua Tricarico. E non è proprio il caso di Cdp, almeno stando a quanto scritto nella prima relazione semestrale di quest’anno a proposito della sua partecipazione del 26% nel capitale di Eni: i “segmenti di business” del colosso petrolifero non sono messi in discussione, così come il “presupposto che al 2035 saranno prodotte l’85% delle riserve certe e incerte” di petrolio e gas naturale per poter “recuperare il valore della partecipazione”.
“Lo scenario attuale di una Cdp ‘assopigliatutto’ mi ricorda l’ormai celebre frase intercettata ai tempi delle scalate bancarie dei primi anni Duemila: ‘Abbiamo una banca?’. Sì, d’accordo, con Cdp abbiamo una banca, ma per fare che cosa?”. Ad esempio diventare azionista al 18,68% tramite Cdp Equity (58 dipendenti a metà 2020) della società Webuild, colosso delle infrastrutture (ha lavorato al viadotto “Genova San Giorgio”) sottoposto alla direzione di Salini Costruttori (azionista di maggioranza al 44,99%), in compagnia di Unicredit (5,38%), Banco BPM (0,67%) e dell’immancabile Intesa Sanpaolo (5,28%). Quello con Intesa è un solido e ricorrente rapporto di collaborazione per Cdp. Le due società si muovono spesso in coppia. Lo dimostrano due recentissimi casi. Il primo è quello dell’annunciata fusione a inizio ottobre 2020 tra SIA (controllata da Cdp) e Nexi (controllata da Mercury UK HoldCo, società veicolo dei fondi Bain Capital, Advent e Clessidra) per dar vita a un “campione dei pagamenti digitali”. I principali azionisti italiani della nuova società saranno proprio Cdp con il 25% e Intesa Sanpaolo con circa il 7%. Alessandro Messina di Banca Etica osserva la dinamica pubblico-privata con una certa preoccupazione.
“Nel caso di SIA-Nexi stiamo parlando del più grande operatore di pagamenti in Europa in mano (anche) a un istituto di credito privato che ormai è divenuto sistemico, specie a seguito dell’acquisizione di Ubi Banca perfezionata nel 2020”. C’è dunque un tema di concorrenza sul mercato? “Provo a spiegarmi -continua Messina-. Se io, Banca Etica, voglio vendere carte di pagamento, domani dovrò rivolgermi a questo soggetto. Più è grande, pesante e concentrato e meno starà a sentire le mie ragioni e strategie: e la concorrenza bancaria?”. Il connubio Cdp-Intesa si spinge anche oltre. È successo nell’affare Borsa Italiana. Il 9 ottobre di quest’anno è stato sancito infatti il via libera all’ingresso di Cdp nella società Euronext con la contestuale acquisizione di Borsa Italiana. Obiettivo dichiarato è quello di “dare vita a un gruppo leader nel mercato dei capitali europeo”. Piazza Affari, nel portafoglio del London Stock Exchange dal 2007, è così entrata in un consorzio “paneuropeo con un presidio stabile di investitori italiani”. Tra loro, naturalmente, c’è Intesa Sanpaolo. “Succede che la principale banca del Paese -spiega Messina- diventa azionista di rilievo della Borsa nazionale. Come riusciremo a garantirci che questo coagulo di interessi privati porti benefici al sistema economico e non alimenti oligopoli finanziari?”. A scorrere gli elogi pubblici rivolti a Intesa quale “banca di sistema”, quella di Messina suona come un’eresia. “A differenza di altri non ho dimenticato le promesse seguite alla drammatica crisi finanziaria del 2008 -obietta il dg di Banca Etica-. Ricordate? Ci si diceva che le regole dei mercati finanziari andavano cambiate, che occorreva aumentare la capacità di resilienza del sistema bancario, essere anticiclici, evitare di concentrare i rischi in poche mani e di far esplodere il ricorso alla leva finanziaria. Che cosa è successo invece?”. Il seppur piccolo contesto italiano offre uno spaccato illuminante. “In 20 anni gli operatori bancari sono passati da circa 1.000 a 200 -continua Messina- con le banche cooperative, popolari e bcc, costrette a snaturarsi nella “forma unica” spa e fortemente delegittimate. Nessuno sembra preoccuparsi di non creare condizioni affinché una banca, domani, possa essere dichiarata ‘troppo grande per fallire’”.
La missione originaria del “luogo di fede pubblica” sancita 170 anni fa è sbiadita, ma non secondo i vertici Cdp. A fine giugno 2020, infatti, il cda ha rivendicato la più estesa operazione di “rinegoziazione dei mutui realizzata negli ultimi anni” per “offrire supporto ai territori durante l’emergenza da Covid-19”. Su 7.182 enti interessati avrebbero aderito in 3.100 per l’equivalente di 80.000 mutui e un debito residuo totale di oltre 20 miliardi di euro. Per i vertici della Cassa sono state “liberate risorse fino a circa 800 milioni di euro nel 2020”. È un positivo ritorno alle origini? “Non direi”, obietta Corrado Conti, dirigente al Bilancio della Provincia di Lecco e membro “esperto in materie economiche finanziarie” dell’Osservatorio sulla finanza e la contabilità degli enti locali presso il dipartimento per gli Affari interni e territoriali del ministero dell’Interno. “Non c’è alcuna riduzione dell’indebitamento ma un semplice spostamento degli oneri (fino al 31 dicembre 2043 per quei prestiti che scadevano prima). Pareggeranno il bilancio 2020 ma prima o poi, o perché aumentano gli anni di ammortamento o perché aumenta il valore delle rate, quella quota capitale gli enti locali dovranno pagarla”. La soluzione per Conti è quella di una “vera rinegoziazione”. Ma come è possibile arrivarci? “Nel decreto Milleproroghe approvato a fine 2019 era stata prevista la possibilità che i mutui degli enti locali venissero ‘ristrutturati’ dal ministero dell’Economia, con accollo da parte dello Stato ‘al fine -cita Conti- di conseguire una riduzione totale del valore finanziario delle passività totali a carico delle finanze pubbliche’. Le modalità operative dovevano essere stabilite da un decreto ad hoc del ministro dell’Economia. A metà ottobre 2020 non è ancora arrivato”.
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