Diritti / Inchiesta
Stefano Cucchi: in aula la verità del medico che esaminò una parte della schiena
Il 27 febbraio, nell’ambito del processo bis sulla morte del 31enne avvenuta quasi dieci anni fa, ha testimoniato, tra gli altri, l’unico radiologo che si è occupato delle vertebre di Cucchi nell’ambito della “super perizia” disposta all’epoca del primo processo. Anche Altreconomia è stata sentita
“Un referto ufficiale l’avrei anche fatto, se me l’avessero chiesto. Oppure non l’avrei fatto, non lo so”. Sta di fatto che “Venni a sapere che questo ‘referto’ era entrato negli atti processuali solo due anni dopo, quando ricevetti una telefonata da un giornalista”. Ma il mio “non voleva essere uno scritto ufficiale”. Perché “ricevetti una telefonata, non un incarico”.
La dottoressa Beatrice Feragalli è l’unico radiologo che si è occupato della schiena di Stefano Cucchi nell’ambito della “super perizia” disposta all’epoca del primo processo sulla morte del 31enne. Il 27 febbraio 2019, durante l’udienza del processo “bis” a carico di cinque carabinieri, ha raccontato per la prima volta in sette anni come fu “coinvolta” dal “team” di esperti (Grandi, Iapichino, Marenzi, Sganzerla, Barana e Cattaneo) nominato, nel maggio 2012, dalla Corte d’Assise di Roma durante il primo (e infruttuoso) procedimento.
Una testimonianza che getta oggi una luce diversa su quella discussa perizia che sancì come causa di morte di Cucchi una “sindrome da inanizione”, o morte da fame e sete, escludendo così fratture recenti sulle vertebre lombari del giovane geometra, in particolare sulla terza (L3), e troncando qualsiasi nesso tra lesioni e decesso. Una tesi smentita tre anni più tardi dal presidente della Società radiologica italiana, professor Carlo Masciocchi; analizzando -su richiesta della famiglia Cucchi e dell’avvocato Fabio Anselmo- il materiale diagnostico che riguardava gli esami radiologici della colonna lombo-sacrale e della regione coccigea di Cucchi, Masciocchi riconobbe (anche in aula, lo scorso 8 febbraio) l'”evidente” lesione fratturativa recente di L3.
Durante il primo processo (a carico di tre agenti di polizia penitenziaria e del personale medico-infermieristico del Sandro Pertini di Roma), la professoressa Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina legale presso l’Università degli Studi di Milano e direttore del LABANOF (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense), dichiarò che il gruppo di periti di cui faceva parte, sprovvisto di un radiologo al suo interno, si rivolse proprio all’Università di Chieti -presso il dipartimento dove Feragalli era ricercatrice- per via della “Tac particolare che abbiamo adottato, tra le migliori in Italia”, ovvero la TAC “Cone Beam”.
Una scelta ponderata, dunque, quella di sottoporre a Feragalli (ausiliario) il “blocco L3-L5” per una radiografia che venne effettuata il 31 agosto 2012. “In buona sostanza dalle indagini radiologiche non si apprezzano né aggetti ossei all’interno del canale midollare né fratture recenti della terza vertebra lombare”, scrissero i periti nell’atto finale.
Sentita in aula il 27 febbraio, Feragalli, ha fornito dettagli finora inediti sul suo ruolo e soprattutto sulla sua consapevolezza dell’esito del suo lavoro. “Era l’agosto del 2012, ero in ferie, e ricevetti una telefonata dal direttore del mio Dipartimento, il professor Caputi -ha spiegato in aula la dottoressa-. Mi chiedeva la disponibilità ad andare in istituto per effettuare degli esami TAC su alcuni pezzi di osso che un medico legale di Milano avrebbe portato a Chieti il giorno seguente perché era impegnata in un corso di medicina legale presso la nostra Università. Accettai di farlo a scopo puramente scientifico”.
Feragalli non venne coinvolta formalmente. “Ricevetti una telefonata, non ricevetti un incarico”, ha chiarito in aula. E le ossa da esaminare non erano solo quelle di Cucchi. “Erano soprattutto ossa della teca cranica di diverse persone e io non sapevo neanche e non so neanche a chi appartenessero quelle ossa. Il giorno dopo […] andai in istituto e insieme al tecnico incontrai questo medico legale di cui mi parlava il direttore. Era la professoressa Cristina Cattaneo dell’Università di Milano, la quale mi consegnò una serie di ossa -ripeto soprattutto della teca cranica- appartenenti a diverse persone. Tra queste mi diede un pezzo di colonna vertebrale e mi disse che apparteneva al corpo di Stefano Cucchi, e mi disse se era possibile effettuare la TAC anche su questo pezzo come per le altre ossa”.
Si trattava per l’esattezza di tre vertebre: L3, L4 ed L5. “Erano delle vertebre sezionate e unite tra di loro da degli elastici gialli -ha ricordato Feragalli-. Mi chiesero se era possibile vedere se ci fossero delle fratture […] sul corpo di L3. […] Effettuammo la TAC […] e io immediatamente dissi che non era possibile esprimere alcun giudizio su eventuale frattura della porzione superiore del corpo di L3 perché era completamente invisibile in questa TAC, nel senso che la vertebra era completamente decalcificata”.
Quindi la vertebra era visibile solo nella porzione inferiore: esattamente quello che tre anni più tardi riconobbe anche il professor Masciocchi (“Penso che sia stato tagliato il soma di L3 includendo solo la porzione più distale e quindi la sola limitante somatica inferiore”). Quella fratturata, però, era la “porzione” superiore. “Consigliai di valutare gli esami TAC eventualmente fatti prima del sezionamento”, aggiunge oggi Feragalli, che poi però uscì di scena.
“Da quel momento non ebbi assolutamente più nessuna notizia di questo caso sino ad alcuni mesi dopo, nel dicembre 2012, in cui ricevetti una telefonata dalla professoressa Cattaneo in cui mi chiese di inviarle uno scritto di quanto le avevo detto. E io ricordavo perfettamente quello che sto dicendo adesso quindi chiesi alla mia segretaria in due minuti di scrivere qualcosa e di inviarlo”. Quindi un esito radiologico potenzialmente centrale per gli accertamenti sulla morte di Stefano Cucchi fu stilato “in due minuti”. Un file non firmato.
Ma anche Feragalli era a quanto pare inconsapevole della sorte del suo “parere”. “Non voleva essere uno scritto ufficiale, era solo un memorandum di quanto avevo detto a voce. Venni a sapere che questo referto era rientrato negli atti processuali solo due anni dopo quando ricevetti una telefonata, mentre lavoravo, da un giornalista. […] Io caddi dalle nuvole”.
Il giornalista che la chiamò, nell’estate 2013, era chi scrive, all’epoca al lavoro sul libro “Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi”, sentito come teste appena prima di Feragalli, il 27 febbraio. La curiosità nata sei anni fa da quella “minuta di referto”, è quindi approdata in aula. “Avere una notizia che un mio referto, un mio scritto, è stato inserito in degli atti processuali, è stato oggetto di un dibattito, io mai avvertita da nessuno, non ero assolutamente a conoscenza di tutto questo. Saperlo da un giornalista, che poi vengo a sapere che aveva registrato la mia telefonata, insomma, per me è stato un momento non facile”, ha dichiarato la radiologa.
Che poi ha concluso: “Un referto ufficiale l’avrei anche fatto se me l’avessero chiesto, oppure non l’avrei fatto, non lo so”.
La sua è una pietra che in parte affonda la perizia del primo processo. Ma la professoressa Cattaneo, raggiunta telefonicamente, non ha voluto commentare: “Non parlo mai dei casi se non sono finiti, morti e sepolti, per una questione etica di lavoro”.
La verità negata sulla morte di Stefano Cucchi è una “vicenda costellata di falsi”, con “prove inquinate su ordini dall’alto”. Una “partita giocata sulle spalle della famiglia della vittima”. Le parole scelte dal pubblico ministero Giovanni Musarò nell’udienza del 27 febbraio 2019 del “processo bis” sulla morte del geometra 31enne segnano ancora una volta la gravità di questa storia. Prima il “violentissimo pestaggio da parte dei Carabinieri appartenenti al Comando Stazionale di Roma Appia” (parole dell’accusa), nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, quindi la strategia di falsi e depistaggi per coprire i responsabili. Con alti vertici dell’Arma coinvolti e parte attiva.
Durante l’udienza del 27 febbraio 2019 è stato sentito tra gli altri anche il generale dei carabinieri Vittorio Tomasone, nell’ottobre 2009 comandante provinciale dell’Arma, che il primo novembre di dieci anni fa, ad autopsia di Cucchi non ancora effettuata, avrebbe per l’accusa riportato “risultati ‘parziali'” in un “atto indirizzato al Comando generale”. Un documento che sarebbe finito poi tra le mani dell’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano, il quale ne diede conto durante un question time alla Camera dei Deputati, riferendo “il falso su atti falsi” (parole del Pm Giovanni Musarò). Il filone sui falsi e i depistaggi continua a svilupparsi.
© riproduzione riservata