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Stefano Cucchi: il silenzio del carabiniere che ha fatto crollare il “muro”

A nove anni dall’arresto e dalla morte del geometra romano, il militare Francesco Tedesco, all’epoca in servizio presso la stazione di Roma Appia, ha accusato due suoi colleghi e coimputati del violento pestaggio. Ma ancora nel 2015, all’inizio dell’inchiesta “bis”, sosteneva che “nulla accadde quella notte”

“Fu un’azione combinata, Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fece perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore”. Con queste parole il carabiniere Francesco Tedesco, a nove anni dall’arresto e dalla morte di Stefano Cucchi a Roma (15-22 ottobre 2009), all’epoca dei fatti in servizio presso il comando stazione carabinieri di Roma Appia, ha accusato due suoi colleghi -Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo- sotto processo come lui per l’omicidio preterintenzionale del geometra allora 31enne (e altri due militari, per altri reati).

“Spinsi Di Bernardo -ha aggiunto Tedesco a verbale nel luglio di quest’anno di fronte al Pm Giovanni Musarò- ma D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra”. “Gli dissi ‘basta, che cazzo fate, non vi permettete”. Il violento pestaggio sarebbe nato dalla “resistenza” di Cucchi al fotosegnalamento presso la stazione Casilina, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre. Poi, come noto, furono tra le altre cose alterati i verbali d’arresto -omettendo i nomi di due militari (D’Alessandro e Di Bernardo)- e cancellata “ogni traccia” del passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina -“al punto che fu contraffatto con il bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento”-.

“Quella sera Di Bernardo e D’Alessandro non erano in servizio, ma loro erano soliti lavorare anche in borghese e fuori dal servizio perché il maresciallo Mandolini, il quale era comandante interinale e premeva perché si facessero molti arresti in modo da fare bella figura, consentiva loro di lavorare in borghese e di aggregarsi quando c’erano arresti o sequestri. In tal modo, comparivano nei verbali di arresto o sequestro anche quando erano fuori dal servizio, poi venivano inseriti nei servizi e prendevano lo straordinario”. Francesco Tedesco, 9 luglio 2018

Sua sorella Ilaria ha scritto che questa mattina, 11 ottobre 2018, il “muro” intorno alla morte “è stato abbattuto”. Ha ragione: l’omertà di questi anni è crollata, coperta da uno stridulo “si salvi chi può”. C’è voluto un processo “bis”, frutto delle indagini della Procura di Roma, del lavoro dell’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, e della testimonianza di un appuntato e un carabiniere scelto (non Tedesco). Ci sono voluti quasi dieci anni.

Ma l’avvocato di Tedesco, Eugenio Pini, ha parlato poi di un “riscatto per il mio assistito e per l’intera Arma dei Carabinieri”. “Gli atti dibattimentali e le ulteriori indagini individuano nel mio assistito il carabiniere che si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, che lo ha soccorso e che lo ha poi difeso”. Per il suo legale, Tedesco sarebbe “il carabiniere che ha denunciato la condotta al suo superiore ed anche alla Procura della Repubblica, scrivendo una annotazione di servizio che però non è mai giunta in Procura, e poi costretto al silenzio contro la sua volontà”. Tutta l’Arma ne beneficia: “È stato un suo appartenente ad intervenire in soccorso di Stefano Cucchi, a denunciare il fatto nell’immediatezza e ad aver fatto definitivamente luce nel processo”.

Su quella “immediatezza” le indagini della squadra mobile della Questura di Roma, a sostegno del nuovo corso dell’inchiesta, raccontano un’altra tristissima storia. È il 30 luglio 2015, l’inchiesta “bis” è partita, la verità è lontana ma si intravvede, la Procura di Roma è al lavoro. Vengono sentiti anche i carabinieri che effettuarono materialmente l’arresto di Stefano Cucchi, in divisa: Francesco Tedesco e Gabriele Aristodemo. Tedesco non parlò di pestaggi, calci, schiaffi. Il “riscatto” poteva aspettare. Disse invece che “non riuscirono a eseguire il fotosegnalamento in quanto non era presente nessuno e né lui, né i suoi colleghi erano in grado di eseguire l’atto” aggiungendo di non ricordare “per quale ragione non avessero attestato in alcun atto che non era stato possibile eseguire il fotosegnalamento”. È falso.

Gli inquirenti allora iniziarono a leggergli la testimonianza dell’appuntato scelto Riccardo Casamassima, che aveva raccontato del pestaggio e delle omissioni. Tedesco ribadì però che “nulla accadde quella notte”.

Non solo. Quello stesso giorno, quando a essere escusso fu D’Alessandro, Tedesco pensò bene di scrivere un sms a Di Bernardo. I due, annotano all’epoca gli inquirenti, “erano ancora all’interno degli uffici della Procura, ma erano stati invitati a non parlare fra loro in quanto avrebbe potuto essere disposto un confronto”. Eppure si scrivono. Tedesco scrive al collega che oggi accusa: “Cosa hai detto?”. Di Bernardo risponde: “Quello che sai…. Ma dice che un detenuto ha detto che due in borghese lo tenevano e uno in divisa cercava di difenderlo io ero in borghese e mi hanno indagato”. Ed è lui a chiedere a Tedesco: “Ma tu che hai detto”. La risposta, tre anni dopo, nei giorni del presunto “riscatto”, è laconica: “Che nessuno di noi lo ha toccato”.

Nel 2018, dopo aver superato la “paura per la carriera”, il “timore di ritorsioni”, dopo aver creduto che la “vicenda Cucchi fosse anche gonfiata mediaticamente” e aver riflettuto sul capo di imputazione, che effettivamente corrispondeva a “ciò che ho visto io”, solo a quel punto Tedesco ha raccontato la verità.

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