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Diritti / Attualità

Stefano Cucchi, mio figlio

Giovanni Cucchi e suo figlio Stefano

Nel 2013 Giovanni Cucchi contribuì al nostro libro “Mi cercarono l’anima” con un ricordo di suo figlio, Stefano, morto solo all’ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009, dopo aver subito un pestaggio. Una testimonianza preziosa da rileggere anche alla luce dei recenti sviluppi giudiziari

Mio figlio Stefano è nato nel ‘78. È nato di sette mesi è per questo è dovuto rimanere in incubatrice 40 giorni. Essere nato prematuro gli ha anche causato un ritardo nella crescita: abbiamo frequentato l’endocrinologo in famiglia, perché sia noi che lui eravamo un po’ preoccupati per questa fase di crescita che tardava a venire… Lui, in un certo qual modo, ha sofferto più di altri questa condizione. Prima di tutto perché si rendeva conto di essere davvero piccolino in mezzo agli altri bambini – a 12, 13 anni ne dimostrava 8 -, e poi perché è stato costretto a seguire tutte queste cure. Questo, ovviamente, ha acuito un po’ la sua sensibilità ed è un fatto molto importante, perché Stefano, questo handicap, se l’è trascinato fino ai nostri giorni. Lui soffriva questo fatto di essere piccolino e – come giustamente ha detto Ilaria – piccolo di fronte agli altri, non soltanto in senso fisico, ma piccolo nel senso morale. Questo lui “se l’è portato” e credo abbia pesato molto nel suo rapporto con la droga.

Stefano era un bambino affettuosissimo, specialmente nei miei confronti, come tutti i bimbi con i papà. Ma andava a scuola con la sua mamma, perché Rita ha fatto la maestra d’asilo: ha fatto le elementari presso un istituto privato di suore, comprese le medie. Era un po’ la mascotte di tutti gli ambienti che frequentava. A sette anni l’ho fatto iscrivere al branco dei “lupetti” in una chiesa qui vicino, dove ha fatto lo scout fino a 15, 16 anni. Poi ha scelto di fare il geometra, anche perché veniva a lavorare da me durante la scuola e quindi aveva ricevuto un po’ di infarinatura della nostra professione. Non è che si sia diplomato con voti eccezionali, diciamo il minimo sindacale. Stefano non amava molto studiare, ma dal punto di vista pratico era il contrario. Diciamo che Stefano era la classica persona che negli studi non eccelle ma nella vita le cose gli riuscivano bene.

A livello di amicizie aveva degli amici del cuore qui a Tor Pignattara, non certo un quartiere modello, né facile. Poi, dopo i quindici, sedici anni c’è stata una svolta, perché a differenza di come era prima – un bambino casa e famiglia e scout – sono iniziate le inquietudini adolescenziali, anche per l’influsso di alcuni amici di quartiere, che l’hanno trasformato… Lui sentiva la necessità di emergere ma non trovava sbocchi nella nostra normalità familiare. Si è incamminato su questo “percorso”, per nulla chiaro all’inizio. Infatti, quando Stefano è arrivato intorno ai 20 anni, noi eravamo convinti che bevesse. Lo vedevamo sempre così, “mezzo e mezzo”. Però lavorava, alternava momenti poco lucidi con altri in cui lavorava e studiava. Quando si è diplomato è venuto a lavorare qui da me; la progettazione non è che lo attirasse molto, però le cose pratiche – il catasto, il rapporto con gli enti pubblici – le seguiva con cura. Nella nostra professione sarebbe riuscito bene, era tenace e aveva lo spirito giusto e il fiuto economico. A proposito, da bambino era lui che metteva da parte i soldi, avrà avuto sette o otto anni. A sua sorella servivano… e andava sempre da lui. Perché era lui quello che risparmiava.

Ad un certo punto le cose sono precipitate. Erano i primi degli anni Duemila. Stefano si faceva sempre più turbolento, la sera tornava tardi e teneva comportamenti che ci facevano soffrire parecchio. Noi pensavamo che bevesse alcool, che abusasse di birra, dato che trovavamo sempre birre nell’armadio. Poi a un certo punto ci siamo imposti: “o ti raddrizzi o vai via da casa”. Da allora ci sono stati dei periodi in cui stava fuori casa, poi rientrava. Noi cercavamo di far sì che facesse una scelta di vita sua, che fosse definitiva. Nel 2004, spontaneamente, dopo tanti periodi di crisi, ha deciso di entrare in una comunità. Nel settembre 2004 è entrato nella comunità di Don Picchi, ha fatto tre o quattro mesi di pre-comunità, dove io lo accompagnavo il giorno e poi ritornava a casa, e poi – poco prima del Natale 2004 – è entrato proprio nella comunità terapeutica ed è andato a Castel Gandolfo, per quasi tre anni. Noi, in quel momento, “respiravamo per lui”. Diciamo che avevamo la speranza che questa comunità riuscisse a risolvere i suoi problemi psicologici e di conseguenza tutta la “devianza” che ne era scaturita. Eravamo in apprensione. Quando gli concedevano le visite domenicali – non certo nei primi tre mesi, quando erano vietate – lo riaccompagnavo la sera in comunità. E lui piangeva, e mi chiedeva di fermarci in auto al bar poco prima di arrivare, come per assaporare qualche altro momento di libertà. Ci prendevamo un caffè e poi lo riportavo, ed è sempre rientrato. In questi tre anni, con l’aiuto degli operatori, ha ricostruito il perché di tutte le sue vicissitudini. Ovviamente Stefano non era contento di stare lì, la vedeva come una prigione, una necessaria prigione, o meglio una prigione volontaria. Nel 2007 ha avuto una ricaduta, purtroppo. Questa volta si trattava di eroina, non più di cocaina, Stefano si è allontanato di nuovo da casa, entrando a Villa Maraini. Noi non l’abbiamo mai abbandonato. Mi ricordo certe telefonate struggenti, quando eravamo a Tarquinia in vacanza. Ogni volta era come per riprendere un contatto, anche affettivo, con lui. Stefano sentiva che ci stava facendo male e non voleva tagliare i ponti. Dalla ricaduta poi si è ripreso, è andato alla pre-comunità di San Patrignano per sei mesi e lì, poi, quando si è posta l’alternativa se rimanerci o uscirne, ne uscì, con l’accompagnamento di una psicologa.

Nella fase successiva all’uscita dalla comunità Stefano aveva capito che doveva darsi delle regole. Lo sport poteva aiutarlo. Stefano era anche portato per lo sport – era un atleta fin da bambino – e siccome gli piaceva la boxe allora aveva deciso di andare regolarmente in una palestra storica di Roma, l’Indomita, vicino a Santa Maria Maggiore, dove io lo portavo un pomeriggio sì e uno no. La mattina andava a correre e poi in dritto in palestra. Siccome era piccolino si era fissato che doveva fare gli incontri con gente della sua taglia, e quindi per sfruttare la sua stazza fisica minuta cercava di stare attento al mangiare, a ogni ingrediente. Mi ricordo quando veniva a casa a cena, quanto era fissato per il mangiare. Questo poi è stato scambiato per “dimagrimento”. Invece era una sua scelta volontaria, nulla di patologico. Quando uscì dalla comunità noi gli mettemmo anche a disposizione la nostra casa di Morena, che avevamo costruito da poco. Ci eravamo resi conto che lui lo meritava e poi non ci sembrava che fosse ancora su quella china. La scelta è stata sbagliata, o forse prematura. Stefano, una volta che si è staccato dalla famiglia, è entrato di nuovo in un giro di droga. Se avessimo ascoltato meglio certi messaggi forse avremmo potuto evitare il tracollo finale, ed è un nostro rammarico.

Poi – ironia della sorte – dopo aver corso tanti pericoli anche gravi, uscito da quella palestra, è incappato nello Stato, che forse avrebbe dovuto proteggerlo, e qui è finita la sua storia.

Questo testo è tratto dal libro inchiesta “Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi” (Altreconomia, 2013), a cura di Duccio Facchini

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