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Crisi climatica / Approfondimento

Carbone e idrogeno “verde”: la transizione tradita della Grecia

La miniera di South field, nella Macedonia Occidentale, è stata aperta nel 1979 ed è la più grande di tutta la Grecia: il cratere è profondo 200 metri e copre un’area di 65 chilometri quadrati © Carlo Dojmi di Delupis

Il Paese ha deciso di rinviare al 2028 lo stop all’uso del combustibile fossile ed entro il 2022 avvierà una nuova centrale a lignite. Mentre il progetto “White dragon”, che vede coinvolte anche aziende italiane, solleva molte perplessità

Tratto da Altreconomia 249 — Giugno 2022

Un immenso cratere scavato nel terreno, profondo 200 metri e che copre un’area di circa 65 chilometri quadrati. Così ci appare la miniera di South field, nella regione greca della Macedonia Occidentale, in una mattinata piena di foschia e umidità. Aperta nel 1979, è la più grande di tutto il territorio ellenico. Il rumore degli onnipresenti nastri che trasportano il carbone (ben 200 chilometri di estensione) è la colonna sonora del nostro viaggio, a tratti surreale. 

Prima di addentrarci nel cuore della miniera, abbiamo il tempo di rivolgere qualche domanda al direttore, che ci lascia intendere quanto verrà esplicitato qualche giorno dopo dal governo greco: lo stop al carbone, previsto per il 2025, è stato rinviato al 2028. South field sarà attiva per altri tre anni. È uno degli “effetti collaterali” della guerra in Ucraina. Finita la nostra breve conversazione, veniamo affidati a Costas. Piglio deciso e un buon inglese, ci accompagna all’interno della miniera percorrendo uno dei viottoli sterrati che segnano il paesaggio lunare di South field. Costas e i suoi colleghi hanno ribattezzato la miniera con l’appellativo di Mordor, e in effetti il parallelismo con gli scenari infernali della saga tolkeniana del “Signore degli anelli” è quanto mai calzante con il panorama che si presenta davanti ai nostri occhi. 

Qui si lavora 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana. Le condizioni sono estreme, come ci racconta uno degli 850 addetti fissi della miniera, a cui se ne aggiungono altri 150 a rotazione. Lui si chiama Giorgos Patoflidis e, insieme a un collega, viene a parlarci dopo il nostro tour nel cuore della Mordor greca. “Le condizioni nella miniera sono molto dure. D’inverno come d’estate, il lavoro si svolge all’aperto, a volte molti gradi sotto lo zero, fino a meno 20 gradi di notte. In estate fa molto caldo e la polvere è ovunque -racconta-. Diamo tutti il massimo, ma a volte si verificano degli incidenti. È una cosa che ci dobbiamo aspettare, però è pur sempre una miniera”. Senza entrare troppo nei dettagli, Giorgos ci dice che purtroppo negli anni ci sono stati anche incidenti mortali. Eppure si tiene stretto il suo lavoro. “Va bene passare all’energia pulita, ma deve avvenire gradualmente -argomenta-. Ci sono così tante persone che lavorano qui, migliaia di posti di lavoro che devono essere preservati e tutto ciò deve avvenire gradualmente, a tempo debito. Perché vediamo che fino a oggi, e soprattutto ora con la guerra in atto tra Russia e Ucraina, è ancora una volta la lignite che tira il serpente fuori dal buco, come si dice in Grecia. In questo momento è molto più economica rispetto al gas”. 

Il carbone di South field e della vicina miniera di West field -di dimensioni più ridotte- servirà ad alimentare l’impianto di Ptolemaida 5, che ci si presenta in tutta la sua grandezza da una collina a poche centinaia di metri dall’omonimo paesino. A fine marzo c’è ancora un po’ di neve, del resto questa è la regione più montuosa della Grecia, e il gigantesco camino dai bordi rossi spicca nettamente. Anche senza avere un occhio particolarmente esperto si nota la differenza rispetto alle altre centrali che abbiamo incontrato per strada. Quella di Ptolemaida 5 è lo stato dell’arte ingegneristico, ma al tempo stesso il paradosso dei paradossi. In un’epoca di gravissima emergenza climatica mentre persino un ente non proprio ultra-progressista e ambientalista come l’Agenzia internazionale per l’energia afferma che sarebbe preferibile evitare di sviluppare nuovi progetti per l’estrazione di gas e petrolio, qui in Grecia si costruisce una centrale a carbone per la produzione di 600 MegaWatt, destinata a diventare la più grande del Paese. 

Va detto che si tratta di un progetto che nasce da lontano: di Ptolemaida 5 si parla da prima della crisi che ha colpito la Grecia nel 2009, mentre i lavori sono iniziati solo nel 2015. Sono comunque passati sette anni e l’impianto non è ancora attivo, sebbene tutti i nostri interlocutori sul campo, specialmente quelli istituzionali, assicurino che partirà entro la fine del 2022. Ora che il governo greco ha spostato lo stop al carbone dal 2025 al 2028 e la produzione di lignite potrà crescere del 50%, Ptolemaida 5 tornerà molto utile. Poi, nel 2028, sarà riconvertita a gas. Un percorso che va in direzione contraria rispetto a quello necessario per liberarsi dalla schiavitù dei combustibili fossili. 

“Le condizioni nella miniera sono molto dure. D’inverno come d’estate, il lavoro si svolge all’aperto, a volte molti gradi sotto lo zero, fino a meno 20” – Giorgos Patoflidis

Una storia che sembra non finire mai e che sacrifica ancora di più la Mecedonia Occidentale per il benessere energetico di tutto il Paese. “Lo sfruttamento della lignite è iniziato circa 70 anni fa su iniziativa di un’azienda privata in una zona vicina a Ptolemaida. Dall’inizio degli anni Cinquanta a oggi, abbiamo raggiunto il picco intorno al 2005 e da allora siamo in una fase di declino. Solo le centrali di Kardia e Agios Dimitrios in piena attività davano lavoro a cinquemila persone”. Lazaros Maloutas è il sindaco di Kozani, la città più popolosa dell’area. Lo incontriamo nel palazzo del Comune, accanto alla torre dell’orologio che è un po’ il simbolo della città. Spiega che prima della crisi pandemica e del conflitto in Ucraina il contributo della lignite nel mix energetico della Grecia era diminuito, attestandosi al 10,5-11% nel totale annuale. Ma fra il 2020 e il 2021 si è registrata un’impennata al 20%, ora destinata a salire ulteriormente.

Maloutas sa bene che cosa comporta estrarre e bruciare carbone. “I problemi ambientali che avevamo in passato, soprattutto dall’inizio degli anni Ottanta, erano ben visibili. Se si fanno delle ricerche sulla stampa locale dell’epoca si trovano titoli sull’aumento dei casi di cancro e molti messaggi preoccupanti per quanto riguarda la salute degli abitanti del posto -spiega-. È per questo che nell’area si è sviluppato un movimento ecologista. Dagli anni Novanta abbiamo esponenti dei verdi nel consiglio comunale: non credo che ci sia stato nessun’altra municipalità in Grecia dove, all’epoca, siano stati eletti esponenti dei partiti ecologisti”. 

Negli anni Novanta nella Macedonia Occidentale erano attive 15 centrali a carbone, oggi sono sei. Secondo le previsioni del governo, entro la fine del 2022 entrerà in funzione anche quella di Ptolemaida 5 © Carlo Dojmi di Delupis

In quegli anni intorno a Kozani e in tutta la Macedonia Occidentale erano attive 15 centrali. Ora sono sei, a cui si aggiungerà Ptolemaida 5. Percorrendo le strade della regione gli sbuffi biancastri dei camini permettono di distinguere quelle spente da quelle ancora in piena attività. Si possono solo immaginare le conseguenze di decenni di inquinamento. Il governatore della Macedonia Occidentale, Giorgos Kasapidis, assicura che nei prossimi anni si procederà con interventi sul territorio: “In passato abbiamo avuto molto inquinamento nella nostra regione, ma adesso abbiamo un programma per bonificare i terreni e per fare ciò sono già stati stanziati 300 milioni di euro”.

Ma il vero game changer, il progetto che le istituzioni greche ma anche europee sbandierano come la soluzione di tutti i problemi e la pietra angolare della transizione ecologica ed energetica, si chiama “White dragon”. Dovrebbe essere realizzato proprio in Macedonia Occidentale e sostituire il carbone e la sua filiera. È stato presentato il 12 maggio 2021 al governo di Atene da una cordata di aziende: Depa (l’azienda pubblica greca per la fornitura di gas) è capofila del progetto insieme a Advent Technologies, Damco Energy del Copelouzos Group, Ppc, Desfa, Hellenic petroleum, Motor oil, Corinth Pipeworks, Tap e Terna energy. “White dragon” è un progetto integrato che copre l’intera catena del valore dell’idrogeno.

Il ruolo giocato dalle aziende italiane è tutt’altro che secondario, visto che Snam (società che controlla la rete di gasdotti in Italia e nel resto del continente europeo), ha di fatto la maggioranza della Desfa, mentre Depa è controllata da Italgas ed Eni. Snam è anche azionista di Tap Ag, uno degli sponsor del progetto. “‘White dragon’ è uno dei quattro più grandi progetti dell’Unione europea e il più completo in tutto il mondo, perché servirà per tre finalità: produrre idrogeno verde tramite infrastrutture fotovoltaiche, che passerà per il Tap, il gasdotto che dalla Grecia arriva in Italia; sostituire il sistema di riscaldamento della regione, ora basato sulla lignite, con l’idrogeno verde. Infine utilizzarlo come combustibile per gli autobus e altri mezzi di trasporto. L’opera costerà circa cinque miliardi di euro e creerà 80mila posti di lavoro entro il 2028”, spiega Kasapidis con toni entusiastici, ricordando che il progetto ha già avuto la pre-approvazione dall’Unione europea, che finanzierà l’opera insieme al governo greco in una percentuale che non è stata ancora decisa e dipende dalla Commissione europea. “Credo che l’Ue metterà oltre il 50%. Vista la situazione attuale, la guerra, credo che le istituzioni europee vogliano accelerare lo sviluppo dell’idrogeno verde nel continente”, aggiunge.

Percorrendo le strade della regione gli sbuffi biancastri dei camini permettono di distinguere quelle spente da quelle ancora in attività

Promesse che per il momento lasciano a dir poco sospettosi gli operai delle miniere e i sindacati che li sostengono, come ci chiarisce Giorgos Patoflidis, parlando di una transizione che per le popolazioni locali potrebbe tradursi in lacrime e sangue. “L’idrogeno e tutto quello che stanno prospettando sono tecnologie in fase sperimentale -riflette-. Non si sa nulla, non si conosce né l’efficienza, né altro. Ma se chiudono le miniere cosa ne sarà dei lavoratori? Si alzeranno e se ne andranno? Per andare dove? Non c’è niente. Hanno preso la terra, la falda acquifera è stata rovinata, cosa succederà? Non c’è altro nella nostra zona. La gente è costretta ad andarsene. Siccome io sono di un villaggio di questa zona lo so, già in tanti sono partiti per la Germania”.

Lazaros Maloutas è il sindaco di Kozani, la città più popolosa dell’area. L’industria estrattiva e l’elevata presenza di centrali a carbone ha provocato gravi conseguenze sull’ambiente e sulla salute degli abitanti della Macedonia Occidentale © Carlo Dojmi di Delupis

Se “White dragon” è il classico mega-progetto calato dall’alto dal governo di Atene con una pletora di promesse che al momento non sembrano avere delle basi solidissime -per usare un eufemismo- c’è chi sta provando a battere una strada alternativa. Lefteris Ioannidis è l’ex sindaco di Kozani, in carica dal 2014 al 2019, quando è stato sconfitto per una manciata di voti da Maloutas. Ci assicura che non ne vuole più sapere della politica, ma preferisce dedicarsi a progetti dal basso, provando a fare qualcosa di concreto per le comunità. “Qui a Kozani abbiamo fondato tre comunità energetiche senza scopo di lucro e il nostro obiettivo principale è quello di stabilire impianti fotovoltaici o altre installazioni rinnovabili che permettano di produrre e scambiare energia sul posto -spiega-. Vogliamo risolvere il problema della povertà energetica della società e naturalmente migliorare la partecipazione delle comunità locali”. 

Nella speranza che l’iniziativa di Ioannidis abbia successo, non c’è invece da stupirsi che dietro all’ennesima falsa soluzione per uscire dal carbone ci sia una ricetta a base di gas e idrogeno pulito pensata proprio da Snam. La Grecia rimane “territorio di conquista”, con un processo di privatizzazioni ancora in corso in cui le aziende italiane fanno campagna acquisti e guadagnano voce in capitolo anche su progetti strategici della dimensione di “White dragon”. Pensiamo al recente acquisto di De Nora, azienda leader nella costruzione di elettrolizzatori e ormai parte della famiglia Snam e protagonista del progetto greco. Ma produrre idrogeno verde per mescolarlo al gas e trasportarlo per migliaia di chilometri è una ricetta che conviene solamente a Snam. Mentre il costo vero, ambientale, climatico e sociale sarà pagato dagli abitanti della Macedonia Occidentale e della Grecia intera. Se “White dragon” costerà cinque o forse più miliardi di euro, sarà il governo greco e non Snam a metterci i soldi. Soldi pubblici che ancora una volta vengono sottratti alla transizione giusta, verso le rinnovabili e verso la democrazia energetica. 

Lo spazio “Fossil free” è curato dalla Ong ReCommon. Un appuntamento ulteriore -oltre alle news su altreconomia.it– per approfondire i temi della mancata transizione ecologica e degli interessi in gioco


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