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Diritti / Attualità

Il diritto d’asilo non si respinge: chi è stato rimandato in Libia può entrare in Italia

Il Tribunale di Roma ha accertato il diritto di entrare nel nostro Paese per presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Il caso di 14 cittadini eritrei respinti illegittimamente in Libia nel luglio 2009 dalla Marina militare italiana. Una sentenza storica che apre scenari nuovi sulle politiche di esternalizzazione delle frontiere e sulla collaborazione con Tripoli

Una sentenza storica sul principio di non respingimento. È quella emessa dal Tribunale di Roma, lo scorso 28 novembre 2019, che riconosce a 14 cittadini eritrei il diritto a entrare legalmente sul territorio italiano per presentare richiesta di protezione internazionale e condanna le autorità italiane per aver commesso un respingimento illecito. Il giudice, per la prima volta, sancisce l’applicazione diretta dell’art. 10 della Costituzione italiana con una decisione destinata a produrre effetti anche in futuro.

I fatti si riferiscono allo scorso 30 giugno 2009 quando la Marina militare italiana soccorre un barcone in avaria a 26 miglia nautiche a Sud di Lampedusa, in acque internazionali. Circa 80 migranti vengono trasportati su un’imbarcazione italiana con la promessa, secondo quanto dichiarato dai 14 eritrei attori in giudizio, di essere traghettati verso l’Italia. Invece il primo luglio 2009 i migranti vengono riconsegnati alle autorità libiche, nonostante le loro resistenze e la loro richiesta di presentare domanda di asilo politico. I cittadini eritrei riportano di essere stati costretti con la forza a salire sull’imbarcazione libica e di essere stati brutalmente e indiscriminatamente picchiati, oltre che ammanettati con fascette di plastica. Successivamente, di essere stati essere detenuti, per lunghi mesi, in prigione in condizioni inumane.

Grazie alla collaborazione della sezione di Amnesty International di Tel Aviv, luogo in cui attualmente vivono queste persone, sono stati contattati gli avvocati Cristina Laura Cecchini e Salvatore Fachile dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (asgi.it) che hanno impostato la causa contro le autorità italiane. Lo scorso 28 novembre 2019, il giudice del Tribunale di Roma (dott.ssa Velletti) ha riconosciuto ai 14 eritrei il diritto ad entrare sul territorio italiano per richiedere protezione internazionale e stabilito un risarcimento di 15mila euro a persona, riconoscendo l’antigiuridicità del respingimento commesso dallo Stato italiano nei loro confronti. Una vittoria per i 14 eritrei e per i legali di Asgi.

“Per la prima volta –spiega l’avvocato Salvatore Fachile- si afferma chiaramente un principio fondamentale. Una persona straniera ha diritto ad entrare sul territorio italiano per presentare domanda d’asilo, se non ha potuto farlo a causa di un atto illecito commesso da parte dello Stato. È un principio che può diventare la base per tutte le situazioni in cui lo Stato respinge illegittimamente le persone nei luoghi di frontiera. Porti, aeroporti, zone di sbarco in cui viene negata la possibilità alle persone di richiedere protezione”. Questo sia in caso di respingimenti eclatanti, come nel caso specifico, ma anche in casi più sfumati. “Pensiamo al respingimento senza contatto nel Mediterraneo, post memorandum Italia-Libia. Lo Stato non entra in contatto con le persone, ma finanzia e rifornisce la ‘Guardia Costiera libica’. Se si riuscisse a qualificare in termini di responsabilità giuridica questo meccanismo sottile, allora questa sentenza potrebbe essere applicata anche per le persone ‘soccorse’ da quella ‘Guardia Costiera’ e riportate in Libia”.

L’identificazione avvenuta sulla nave Orione della Marina militare con foto segnaletiche è stata importante per riconoscere la legittimazione ad agire ai cittadini eritrei. Il giudice ha infatti riconosciuto la corrispondenza degli attori in giudizio con i migranti presenti quel giorno sulla nave. Questo, potrebbe essere un problema in caso di respingimento senza contatto. “In altre occasioni però il Tribunale di Roma ha riconosciuto la legittimazione attiva ad agire –precisa Fachile- attraverso l’identificazione svolta dall’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) sulle coste libiche. Questo è un esempio di come non esista uno strumento unico. Chiaramente è molto complesso, nel caso in cui questo passaggio venga effettuato dalla Marina militare diventa più diretto. Certamente però un’identità sicura può emergere da diverse modalità di identificazione”.

Nella sentenza, il giudice sottolinea la rilevanza della presenza dei migranti sulla nave della Marina, quindi in senso lato sul territorio italiano, da cui deriva la possibilità di richiedere asilo politico alle autorità italiane. “Rifacendosi però alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) quello che conta non è la presenza sul territorio, ma la disponibilità del soggetto da parte dello Stato –continua Fachile-. Per capirci, nel caso di un soccorso forzato da parte della ‘Guardia costiera libica’, quindi in assenza di contatto tra la persona e l’autorità italiana, ci si potrebbe comunque potenzialmente rifare all’attività congiunta tra Italia e Libia. Si potrebbe dire che, a seguito dell’accordo bilaterale, chi dispone di quella persona in quel luogo è anche l’Italia. Anche in questo caso è complesso, ma ci sono dei margini”.

Per quanto riguarda gli accordi allora in essere con lo Stato libico, il giudice stabilisce che, nel caso specifico, l’Italia non poteva ritenersi esente da responsabilità invocando obblighi derivanti da accordi bilaterali in quel momento in vigore con la Libia, considerati recessivi rispetto a norme superiori. “Sicuramente è un passaggio politicamente utile, anche sotto l’aspetto dialettico, soprattutto pensando a quello che succede oggi -continua l’avvocato-. La sentenza però rimane tecnicamente più asettica: si poteva immaginare la stessa applicazione anche con un Paese di respingimento meno violento, o comunque in cui è meno conclamata la situazione di pericolosità e violenza. Penso, per esempio, alla rilevanza che assume questa decisione per i respingimenti che si verificano nei porti di Bari e Ancona. Giovani iracheni ed afghani raggiungono le coste con imbarcazioni di fortuna e vengono respinti in Grecia, dove spesso vengono arrestati. In questo caso, anche se non tramite le impronte digitali, lo Stato effettua una sorta di identificazione. In tutti questi casi, questa sentenza tornerebbe utile”. Utile, soprattutto per l’applicazione diretta di un principio costituzionale. “Avevamo richiesto la possibilità di fare richiesta di protezione internazionale come risarcimento del danno in forma specifica, perché ci sembrava più sicuro dare una lettura civilistica senza “osare” una lettura costituzionale. Il giudice è giustamente andato oltre, ritenendo più corretta un’applicazione diretta dell’art. 10. Possiamo dire che è un risultato che va oltre le nostre aspettative”.

La sentenza è immediatamente esecutiva, non vi sono quindi motivi giuridici che impediscano l’ingresso sul territorio italiano. Potenzialmente, anche se nella realtà gli stratagemmi informali per ritardare il più possibile il loro ingresso sul territorio italiano sono molti, i 14 cittadini eritrei avranno presto la possibilità di ricostruirsi un futuro sul territorio italiano. Delle restanti 60 persone, non si ha invece niente di più che un numero imprecisato e qualche notizia rilasciata dai compagni di viaggio. Durante le deposizioni infatti, i testimoni hanno dichiarato che alcuni di loro sono morti nel tentativo di raggiungere l’Europa dopo essere fuggiti dalle prigioni libiche. Morti da ricordare, nel giorno in cui viene riconosciuta la responsabilità dello Stato rispetto all’illegittimità del respingimento.

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