Diritti / Opinioni
Ancora una volta all’ascolto del Cile
Che cosa fare quando un esperimento come il referendum costituzionale cileno fallisce? È possibile costruire un mondo globale de-colonizzato? Gli appunti di Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale permanente dei popoli e profondo conoscitore dell’America Latina
La situazione del Cile non ammette tante discussioni. I contenuti dell’alternativa sottoposta al referendum sembrano riguardare non tanto il quesito iniziale, “Pinochet vs Nuova costituzione”, che aveva raccolto una adesione assolutamente plebiscitaria, quanto un oggetto, un testo costituzionale (difficilmente riassumibile per i contenuti, chiarissimo nelle dimensioni e nella complessità, con i suoi 388 articoli e lungo tante tante pagine), la cui conoscenza da parte dei votanti non poteva essere stata tale da poter essere sintetizzata in un “Sì” o “No”. E ancor di più era stata esposta alle semplificazioni più arbitrarie da parte degli interessi più minacciati. Somma, questi interessi, di due mondi tanto distanti e incomparabili per contenuti quanto suscettibili di essere sommati nella percezione della frazione meno adeguatamente informata della popolazione.
Da una parte un immaginario antico e profondo, fatto di colpo realtà su cui prendere decisioni radicali, di popoli indigeni-originari che imponevano la propria “minoranza storica, culturale e numerica” per divenire i nuovi controllori del futuro: in perfetta autonomia, o sostituzione, o addirittura rivalsa, rispetto alle “maggioranze marginali e povere” che non sentivano-vedevano segnali credibili di cambiamenti nelle “novità” infinitamente disperse e poco collegabili dei tanti (impossibili da ricordare-articolare) articoli costituzionali. Dall’altra parte un’offerta assolutamente unica (per i “comunicatori dell’ordine costituito”) di tradurre la chiarezza della novità del “No” a Pinochet e al suo passato, nella ancor più chiara minaccia della “abolizione della proprietà privata”, per rendere possibile e obbligatoria, da subito, la restituzione delle terre e dei loro diritti alle popolazioni indigene.
Il tutto sullo sfondo del silenzio, tanto facilmente traducibile in disapprovazione per il cambio, di quelle classi dirigenti “democratiche” (rappresentate al meglio da una protagonista come Bachelet) che in questi tanti anni avevano governato accettando, al di là delle ricorrenti “rivolte” della società e soprattutto dei giovani (fino al 2019), la intoccabilità di tutto il modello “neo-liberale”, estrattivista, sia all’interno del Cile, sia nella sua politica internazionale.
È in questo senso interessante notare che tutti i commenti ex-post, mettono in evidenza, in un modo o nell’altro, un tempo pre-referendum in cui ben poco spazio era stato dato, in una polarizzazione crescente centrata sui punti più controversi, alla sostanza del confronto, fondamentale e politicamente imprescindibile: che si trattava di approvare un “processo” molto articolato, preciso nei principi ma di lungo periodo, perché una costituzione non è un decreto legge da applicare, ma un disegno storico da interpretare e tradurre con un lavoro di forte collaborazione tra attori che per definizione hanno interessi divergenti e contrastanti, che si confrontano in una ricerca, non semplice, di una democrazia capace di affrontare realtà nazionali e internazionali sempre più in conflitto e dipendenti da gerarchie di valori di cui verificare la praticabilità o sostenibilità. Trovare nel dibattito la ammirazione di “esperti” indiscussi nel settore più critico quale è quello delle diseguaglianze come Piketty per l’audacia intellettuale di dare in una costituzione formulata dal basso la “legittimità” almeno di essere pensata è un indicatore importante dei termini reali delle “distanze” che erano-sono in gioco.
Così come ritrovare nei commenti del mondo della ricerca cilena il dispiacere profondo per quella che può finire per essere considerata una sconfitta, quando di fatto l’affermazione nel progetto costituente del ruolo di indipendenza, accountability, complementarietà come modo di interpretare la competitività della ricerca era stato salutato come un passo avanti carico di futuro per la civiltà del Paese oltre che per la sua capacità di produrre conoscenza ed autonomia.
Che fare quando un esperimento fallisce? È chiaro che la domanda è tutta e anzitutto sulle spalle dei popoli del Cile. Per altri versi è vero anche il contrario: un esperimento che esplicitamente ha preteso di “vivere al futuro” realtà che sono di fatto (una per una: dai diritti dei popoli originari, alla insostenibilità del neoliberismo duro e puro, qualsiasi sia il nome che prende) riconosciute come centrali in qualsiasi agenda con margini di credibilità non appartiene più solo al Cile. Entra di fatto tra il materiale obbligatorio di conoscenza: non solo per vedere il destino concreto in Cile, ma per essere parte di un laboratorio-osservatorio che continua. Se c’è un problema serio per tutte le sinistre, è quello di avere una tendenza all’usa e getta. Le domande da porsi in questa direzione sono tante. Val la pena esplicitarne alcune.
La prima è la più ovvia e obbligatoria, per evitare almeno di vivere l’esperienza cilena come l’ennesimo lutto, con il conseguente potere di metterla in un angolo a interesse decrescente con il tempo. È permesso oggi pensare -ambito per ambito, e complessivamente- al futuro come a un tempo non condannato a essere riproduzione, più o meno forzata, di quello che è considerato main stream? È bene sottolineare la banalità: la Costituzione cilena è stata una grande vittoria del pensare sull’attendere, o sul rassegnarsi, o sul censurarsi come primo strumento preventivo rispetto alla delusione possibile. Possiamo condividere tutte le critiche, gli sbagli. È un esercizio importante e solo i cileni potranno farlo. E sarà bello condividerlo: più o meno d’accordo. La nostra Costituzione, che ha avuto la fortuna di essere “pensata” in un momento irripetibile della storia, non è stata una strada lineare: e le sue regressioni sono state proporzionali a tempi e pretese di non-pensiero al futuro, di incroci di interessi “altri”. Di assenza di “lotte di liberazione” da o per qualcosa.
Il mondo globale ha cambiato le regole del gioco. Quale è la mappa dei luoghi-attori che stanno sperimentando, con destini alterni, spesso drammatici, “sogni costituzionali”: con che difficoltà e con quali contatti? Quanto si impara reciprocamente? Molto poco. Ci si legge, quando va bene. In un mondo dove tutto è noto e comunicabile, il tempo per confrontarsi è spesso “inagibile”. Le scadenze, di tutti i tipi, prevalgono. Mesi fa, con compagne e compagni cileni si era iniziato un contatto con il Tribunale permanente dei popoli per fare una “sentenza al futuro”, preventiva, per mettere in evidenza gli snodi che nel disegno costituzionale cileno apparivano chiaramente come i più difficili, meno accettabili-praticabili alla luce del diritto esistente. Così da immaginare un “diritto dalla parte dei popoli” che avrebbe dovuto essere sviluppato e proposto, senza illusioni di poter essere praticato subito ma come presa di coscienza esplicita e aiuto a riformulare meglio gli obiettivi. Non se ne fece molto: il tempo era breve, già preso, si rimandò. Il tema è aperto come sfida di “pensiero”, per un diritto costituzionale che si faccia carico prima che i cammini conflittuali prendano il sopravvento con uno sguardo al passato. Gli scenari surreali, e senza diritto a misura del presente e futuro, che si vivono oggi, in Europa, ma non solo, per la guerra, o gli armamenti che competono con la sanità, con i migranti, sempre diversi e sempre respinti, qui come nei Paesi del Pacifici puntano nella stessa direzione. Sono tanti i “popoli cileni” che hanno bisogno di diritti costituzionali.
La domanda più esplicita e completa posta dalla Costituzione cilena, “rechazada” nella sua formulazione in 388 articoli, è quella che ritorna con sempre più frequenza, per i diritti umani, dei popoli, economici, climatici, ambientali: è finalmente pensabile una globalizzazione che sia una de-colonizzazione? Anche in questo senso quanto è accaduto e sta accadendo in Cile ha come due capitoli centrali: un contesto che più coloniale non potrebbe essere come quello dei Mapuche, e un contesto che più classicamente neo-coloniale non potrebbe essere come quello della economia. Aver provato ad affrontarli insieme era necessario, ma ancor di più, culturalmente, un rischio certo: trasversale alle classi, alle categorie di riferimento. La cultura della colonia ha radici profondissime . Costituzioni che se facciano carico devono avere degli “apruebo” di lungo periodo, per permettere di creare contesti sperimentali, che si vivono, non solo che si discutono: che obblighino i neo-coloni economici (che non si accettano mai con questa identità, in quanto si considerano per definizioni attori, e ancor più padroni, di futuro, anche quando tutto parla di crisi sistemiche) a riconoscere di avere criteri di riferimento più direttamente coincidenti con le vite delle persone, e non solo con indicatori sempre più discriminatori e non inclusivi. L’esperimento cileno è in questo senso completamente aperto, e avrebbe tutto il vantaggio ad essere ripreso e condotto in stretto confronto con le situazioni diverse-complementari dell’America Latina.
Una domanda che ci collega strettamente alla precedente riguarda proprio il con le altre realtà costituzionali dell’America Latina. Tutte in situazioni di transizione profonda: dalla Colombia, che dopo 70 anni sta sperimentando la praticabilità di una democrazia reale, alla perenne ambiguità istituzionale, etnica, economica dell’Ecuador, all’interrogativo del Brasile. Mai come oggi il riconoscersi come parte di uno stesso scenario di crisi o potenzialità da parte di tutti i Paesi della regione si pone come un’opportunità unica di forme di collaborazione che permettano di de-colonizzarsi come modo effettivo per sviluppare modelli che tengano conto, in modo innovativo, delle trasformazioni geopolitiche dalle quali sempre di più dipendono i singoli Paesi, più o meno tra loro alleati.
Ho già preteso fin troppo di commentare una realtà di cui sarà importante soprattutto accompagnare le evoluzioni: possibilmente con lo stesso interesse che sembrava attendere una vittoria dell’apruebo.
Sarebbe bello se il Cile vivesse questa situazione critica come, in ricerca, i risultati sconfessano le attese: non sono il segno di un fallimento, dicono che il problema molto importante che si è affrontato ha messo in evidenza altri aspetti della realtà, ed ancor di più ha confermato che su scenari di medio-lungo periodo una priorità assoluta deve essere data a una cultura fortissimamente orientata a far crescere una cultura della “partecipazione informata”. Alle tante domande dobbiamo dunque soprattutto aggiungere un augurio, sì, di lungo periodo.
Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli
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